Attraverso lo sguardo acuto di Pietro Compassi di Roncheschin ripercorriamo quasi un secolo di storia e la vita dell’intera val Dogna.
“Sfrecciando sul gigantesco viadotto che sovrasta il paese, in molti si saranno chiesti cosa ci sia nell’anima di Dogna: il paese finisce lì, sotto le infrastrutture viarie, oppure custodisce ancora qualcosa?” Così inizia il bel libro “Dogne si conte…cu le vôs dai nonos”, che raccoglie una serie di testimonianze suiborghi – ormai in gran parte abbandonati – della val Dogna.
Anch’io voglio cercare l’anima di Dogna e mi metto in cammino per andare a Roncheschin, la frazione più vicina, dove abita Pietro Compassi, classe 1915. Sono solo un paio di km da Dogna, le case addossate l’una all’altra sembrano sospese in un tempo immobile, coperte da mezzo metro di neve. Nell’aria gelida c’è profumo di fuoco di legna: nella cucina della casa dove Pietro Compassi è nato ed ha sempre abitato c’è un bel tepore, e mentre chiacchieriamo davanti alla finestra passa un paio di volte – come in una foto d’altri tempi – una donna con una gerla colma di fieno.
Nella “Terra di mezzo”
“Vorrei parlare un po’ della val Dogna- gli dico, e allora con lucidissima e precisa “mente locale” Pietro fa un veloce elenco di luoghi a lui familiari, toponimi così evocativi da sembrare usciti dalla penna di un Tolkien friulano: “Cuel dai Cjans, Cuel dai Giai, il Condanât, il Sfonderât, Cueste Moze, Cuel dal Corvat, Gran Livine, Cjase dal Romeo, Clapon dai Muarts…” Poi, senza farsi pregare, Pietro inizia a raccontare la sua infanzia: “Purtroppo non ho potuto andare gran che a scuola perché dovevo portare a pascolare le capre oppure andare a prendere il foiét (foglie secche) e la brene (foglie di abete). Digi a la mestre che tu as di lâ a brene – erano le parole di mio padre. Avevamo la miseria negli occhi.”
La cosa più sorprendente è la vita semi-nomade della famiglia: “La nostra casa era qui a Roncheschin, ma in realtà ci stavamo solo da Capodanno a fine marzo. Ai primi di aprile salivamo con mucche pecore e capre agli stavoli di Costa di Goliz e a Granvalt. Ah, quello sì che è un posto veramente bello, con l’acqua a due passi. Lì ci stavamo fino al 15 di giugno, poi salivamo ancora un po’ più in alto alla Bergerie fino ai primi di luglio. Poi veniva il periodo della malga fino alla Madone di setember (8 settembre), e tornati giù stavamo 20-30 giorni allo stavolo vicino al rio Mas, sotto Chiout di Gus, poi fino in dicembre andavamo allo stavolo di Lôt, vicino a Porto, tanti posti come le stazioni della via Crucis… ci si andava anche per concimare i prati.”
Ma da mangiare, ne avevate a sufficienza? “Sì, avevamo abbastanza da mangiare, solo erano tante le ore da fare, specie in malga, dove lavori da un chiaro all’altro, ma non è fatica. Si mangiava ricotta con la polenta, pane, batude, zuf fatto con la farina di polenta.
Vita di malga
Sono stato in Bielighe (malga Bieliga) con mio padre, per 9 anni, dal 1923 al 1932, il periodo per cui la malga veniva concessa in gestione. Ne avevamo di animali lassù: 70 mucche da latte, 20 giovenche, 12 vitelli, e un centinaio di capre… un anno ne abbiamo avute addirittura 107! mio padre è stato multato perché erano troppe. Poi la Forestale le ha proibite e allora siamo andati a Plezzo (attuale Bovec in Slovenia) a comprare le pecore del latte. A lavorare eravamo in quattro, io ero il più piccolo e avevo paura a stare da solo. Quando abbiamo perso l’asta di Bieliga, mio padre ha dovuto accontentarsi di andare in Sotgoliz, lì dove adesso c’è il Bivacco del Cai di Cividale, ma non era una malga quella, proprio no, era pericolosissima, lo dice anche il nome che razza di posto è. Per fortuna non è mai successo niente, a me una volta una pecora è caduta giù da un salto ma è finita in una pozza d’acqua e non si è fatta niente.”
E’ emozionante sentir parlare della leggendaria malga Sotgoliz dalla viva voce di chi l’ha vissuta in prima persona. Era l’avamposto da cui partivano negli anni 30 gli alpinisti che tentavano le pareti del Cimone. Per arrivarci ci volevano 4 ore di cammino, partendo da Dogna. E Julius Kugy, il pioniere dell’alpinismo sulle Alpi Giulie, la ricorda così: “Tutto quanto si vede dallo stavolo Sotgoliz nelle profondità di Dogna ha proporzioni gigantesche.” La “povera e obliata capanna” situata su un magnifico prato alpino “ha avuto la sua parte nelle ultime opere di scoperta in questa zona, a suo tempo negletta. Serate liete, fuoco acceso, polenta fumante acqua squisita, forse ogni tanto un po’ di angoscia nel sognare lo “Sfonderât”, attraverso il quale un sasso che cade vola fino alla parte opposta della terra e anche un pezzo più in là.”
Ma la visione romantica degli alpinisti non è gran che condivisa dal mio interlocutore, che anzi sente di aver sprecato lassù metà della sua giovinezza: “Di alpinisti ne passavano tanti, andavano a fare le vie sul Cimone e sul Montasio, era bello vederli, e mi dicevano: “Ma chiste ise une malghe di cjamoz?” oppure “Ma le mucche le avete portate su sulla schiena? infatti avevamo con noi solo sei mucche, le nostre, e poi pecore e capre. Oppure mi dicevano: “Non è vita da condannare un giovane così”. L’unica cosa bella era che si vedeva tutta la vallata. La malga era fatta di tronchi di abete, coperta di scandole. L’aveva costruita mio padre Pietro e aveva anche tagliato il bosco. Per dormire si dormiva come i camosci, sopra un sacco pieno di lescje (erba secca). E i fulmini lassù? Sono colpi fenomenali! La maggioranza vanno sui larici. ”
Nel 1979 il CAI di Cividale ha costruito lassù un Bivacco fisso, di quelli di lamiera rossa chiamati “Fondazione Berti” e ha ripristinato non solo il sentiero, che sale “un affilato crinale boscoso disseminato di alberi fulminati”(Marini-Galli), ma ha anche costruito ex novo una grande e robusta passerella che evita i pericoli del guado sul torrente Dogna. Pietro Compassi è stato a vederla: “Adesso c’è un ponte fenomenale, lo hanno costruito quelli del CAI di Cividale, ma prima le bestie dovevano passare l’acqua, e le pecore e le capre da latte bisognava portarle in braccio, sennò perdevano il latte perché l’acqua era troppo fredda. A Sotgoliz ci sono stato per tre anni con mio padre, e poi da solo, per ben 4 anni, fino a quando ho dovuto andare in guerra, mi hanno mandato in Grecia e in Bosnia, facevo il portaordini. Ma nel 1942 con un colpo di fortuna mi hanno chiamato a lavorare nella miniera di “boghé” (bog-head, scisto bituminoso) a Resiutta. Buttava poco, ma quel poco valeva. A fasevin ueli ch’al leve tai aparechios.”La miniera del Rio Resartico, oggi dimenticata da tutti, si trovava a 1000 metri di quota, sul versante settentrionale del monte Plauris. Lo sfruttamento del bitume era iniziato verso il 1870 e aveva avuto il suo culmine durante l’autarchia, negli anni dal 1932 al 1943. Oltre agli usi civili veniva usato anche come combustibile per motori bellici. Pietro Compassi a Resiutta ci lavora per 16 mesi, poi i tedeschi chiudono la miniera e lui deve arrangiarsi a fare il manovale e il boscaiolo nella zona. Nel frattempo si è sposato, è rimasto vedovo, si è risposato e gli sono nate due figlie, la vita finora lo ha fatto tribolare non poco.
Ma ecco la svolta: “Dal 1950 al 1970 ho lavorato nella miniera di cave del Predil come martellista – sempre nel sottosuolo – tutto sommato ho fatto una bella vita, la miniera era miniera, ma fuori c’erano tutte le comodità, anche il cinema, e poi venivo a casa sabato e domenica tutte le settimane. Nella facciata della mia casa c’è un altarino dedicato a Santa Barbara, patrona dei minatori. Anche se ho avuto un grave incidente, è crollata una galleria e sono stato molti giorni tra la vita e la morte – ma io non me ne ricordo – sono rimasto a lavorare là finché ho potuto andare in pensione”.
Dal 1970 in poi la vita di Compassi torna a riannodarsi strettamente con quella della sua valle:”Dopo il 70 ho sostituito il fedâr (casaro) di Dogna che era malato e ho lavorato fino al terremoto quando la latteria è stata chiusa. Nella latteria di Dogna si lavoravano anche 7 q di latte al giorno. C’erano tante mucche: io sono stato in tutte le case perché mio padre aveva la monta taurina qui. Da Pleziche a Vidali si contavano 336 mucche, adesso c’è una sola famiglia che ne ha, a Plagnis. Ma è ovvio, adesso non siamo neanche 200, allora eravamo 1800; qui a Roncheschin vivevano 21 persone, adesso siamo rimasti in 4! Era tutto pieno di campi: patate, rosse e bianche, fagioli, cappucci. Ogni casa aveva peri e meli e faceva il most (sidro).La mia famiglia aveva una fornace per la calce che è ancora in piedi e un mulino – un mulino vecchio di 500 anni – che funzionava tutta la settimana, veniva gente anche di Scluse e di Perteade (Pietratagliata) a macinare frumento e mais. Chiout di Pupe, Chiout Zucuin, Pleziche, Mincigos, Salet, Baladôr, Chiout Tassot: prima i paesi erano pieni di gente così, quanto si giocava a carte nelle case d’inverno, era come essere a Montecarlo!”
Ma della tenacia con cui i valligiani traevano il loro sostentamento da questi luoghi impervi che cosa rimarrà nella memoria tra pochi anni, quando non ci sarà più nessuno a saper nominare ogni prato, ogni costone, ogni radura? © Antonietta Spizzo per “Il Nuovo FVG”, gennaio 2006.
Bibliografia: D.Marini-M.Galli, Alpi Giulie Occidentali, Trieste 1983, non solo una guida, ma un libro appassionato e appassionante; Julius Kugy, Le Alpi Giulie attraverso le immagini, Bologna 1970; AA.VV. Dogne si conte…cu le vôs dai nonos, Tolmezzo 1999.