Una volta c’erano molte malghe in val Aupa, nonostante l’asprezza del suolo, e avevano nomi enigmatici o evocativi come Vualt, Liûs, Palis di Liûs, Ladussêt, Giouf di Fau, Flop, Foran da la Gjaline, Cimadôrs. Oggi alcune sono state ristrutturate e vengono usate come bivacchi, di altre non è rimasta quasi alcuna traccia in mezzo all’invadente vegetazione di ortiche e lamponi.
A salvare dall’oblio della memoria le storie di malga Flop, ai piedi della Sfinge, sul sentiero che oggi porta al Rifugio Grauzaria, è Corrado Druidi, classe 1947, di Dordolla.
E’ stato uno degli ultimi ragazzini-pastori che hanno lavorato nella malga di Flop, prima che la monticazione fosse abbandonata nel 1961. Corrado, che vi ha passato le estati del ’59 e ’60, ne ha dei ricordi ancora vivissimi: mi disegna una piantina della malga e me la descrive nei minimi dettagli, come se fosse ancora davanti a lui.
“La malga di Flop era costituita da due stalle (stalons) e da una casera, semplici costruzioni con i muri in pietra e i tetti in scandole. Lo stalon più piccolo “alloggiava” una trentina di capre, qualche pecora e qualche giovenca, quello più grande circa 25 mucche; all’interno c’era un soppalco con i giacigli dei pastori, che dormivano quindi sopra le mucche. Il pajon, il materasso fatto di scus, le foglie secche delle pannocchie di mais, i pastori dovevano portarselo da casa. La casera era di piccole dimensioni: nella stanza principale c’era il focolare con la musse, il sostegno girevole per la cjalderie in cui si scalda al latte per fare il formaggio; lì accanto due giacigli sovrapposti per il malgaro ed eventuali familiari o ospiti, soprattutto alpinisti. Sulla sinistra c’era il celâr, un locale seminterrato e quindi fresco per conservare i formaggi. Le ricotte venivano invece poste ad affumicare sopra il focolare. La malga di Flop era molto misera rispetto ad altre del comune di Moggio come Aips e Lanza, e difficilmente e scomodamente raggiungibile.”
Il proprietario era il vecchio Giovanni Gardel detto “Ors”, aiutato dai due fratelli Pietro e Zef, anche loro ormai avanti negli anni. Nei tempi migliori avevano avuto più di trenta mucche da latte e 25 giovenche che provenivano da tutta la val Aupa fino ai Saps. Corrado ricorda invece solo 25 mucche da latte e una trentina di capre da latte (insieme al bec, il caprone)nonché un piccolo gregge di pecore tenuto allo stato brado.
Corri con le capre
Ma mentre le pecore badavano a se stesse, le capre davano molto filo da torcere ai giovani pastori. “Le capre – continua Corrado – sono tra gli animali più dispettosi e soprattutto all’inizio della monticazione, ai primi di giugno, sono insaziabili. Spinte dalla gola facevano continue scorribande verso il basso, e andavano a depredare i campi di fagioli delle case dei Nanghez e ti lascio immaginare come si arrabbiavano i depredati. I pastori più giovani dovevano correre più veloci delle capre e bloccarle al passaggio del recinto, la stangjade. Insomma, con le capre era guerra continua”.
Le giovenche venivano mandate nei pascoli minori della zona alta, mentre alle mucche da latte era riservato il pascolo migliore, cioè il cjampeit, che veniva rigidamente razionato. “All’epoca non esistevano recinzioni elettriche – racconta ancora Corrado – e il compito dei pastori era abbastanza impegnativo perché si trattava di controllare le mucche al pascolo concedendo loro di avanzare sull’erba nuova per non più di due metri al giorno… pena qualche rimprovero con il bastone!
Le capre da latte, che venivano munte come le mucche due volte al giorno – il che richiedeva complessivamente tre ore di lavoro – dopo la mungitura del mattino venivano spinte verso l’alto dove si arrangiavano a cercare le erbe e i fiori di loro maggiore gradimento; ma questo non facilitava affatto il pastore perché le capre non rientravano da sole alla casera per l’ora della mungitura serale. Le capre sono animali che cercano sempre il chiaro e non tornano più indietro nell’ombra, hanno bisogno di un richiamo o di essere accompagnate, così il pastore doveva fare qualche chilometro in salita per recuperare la capobranco con del sale o della semola. Mossasi lei, tutto il trop, il gregge, le va dietro.”
Batude e taçun
Man mano che si inoltra nelle esperienze del passato, vedo che Corrado le rivive con tale intensità che il suo sguardo si è straniato e il suo racconto è diventato quasi una dettatura: “La vita dei ragazzini-pastori era veramente molto difficile in una malga come Flop, lontana dalla strada e anche da quel po’ di vita civile che c’era in quei tempi al paese.
Dovevamo imparare a mangiare e a dormire in modo del tutto nuovo. Dormire nel soppalco sopra le mucche non era per niente facile, soprattutto nelle prime giornate di monticazione, quando le “scaramucce” tra gli animali che non si conoscevano tra di loro non permettevano di prendere sonno. Quanto ai pasti quotidiani, la colazione consisteva di latte e caffè di cicoria. A pranzo c’era polenta e taçun (detto anche scuete di sedon), il fiore della ricotta, che è un alimento gustosissimo dopo averne fatta l’abitudine, ma davvero schifoso nei primi periodi; a cena, minestra di ortiche con un pugnetto di riso oppure minestra di farinuç con un po’ di pasta. Niente fagioli, ma sole erbe e qualche patata. Da bere c’erano la batude, il liquido che resta nella zangola dopo la produzione del burro, e il sîr, il siero, residuo della produzione del formaggio, ma di quest’ultimo non tanto, perché serviva per i maiali!”
La transumanza
Era festa grande il giorno di San Pietro quando si mangiava polente cuinciade: fette di polenta alternate a formaggio e ricotta affumicata e grattugiata, condite con ont, cioè burro cotto. Questo era il preludio alla transumanza verso la malga superiore del Foran de la Gjaline, a 1500 metri, che avveniva qualche giorno dopo, con l’aiuto dei genitori dei pastori per il trasporto delle pochissime cose personali tra cui una giacchetta, due paia di scarpets e il pajon.
“Immaginati il trasferimento con 30 vacche, 30 capre, due maiali, qualche gallina e il gatto! Dopo un giorno di assestamento (le mucche giovani dovevano trovare un loro posto, perché quelle più vecchie lo avevano già dagli anni precedenti) noi pastori cominciavamo a prendere visione e misura del nuovo habitat. La casera era più piccola, uno degli stalloni era discreto, l’altro era più una loggia che una vera e propria stalla. Il primo problema, come in Flop, era razionare il pascolo; al mattino si portavano le mucche verso l’alto, nell’incolto, al pomeriggio verso il basso, nel cjampeit, per i soliti due metri al giorno.
Anche l’acqua costituiva lassù un grande problema: l’unica fonte diretta era quella che si formava sulla sella dopo i temporali e durava al massimo 3 giorni. Quando al mattino le mucche avevano sete, le portavamo al Plan dei Lavaçars verso Paularo, dove c’era un abbeveratoio bellissimo fatto di tronchi di larice e l’acqua scendeva sempre abbondante. Ma verso la val Aupa c’era solo una piccolissima sorgente sotto il cjampeit (anche quella con un piccolo sbarramento in legno) e noi piccoli pastori dovevamo attingere l’acqua da lì con i secchi e portarla con il buinç fino all’aip della casera…e doveva essere sufficiente per tutti, uomini e bestie!”
Il cielo della Carnia
“Ma lassù era bellissimo – continua Corrado – immaginati la meraviglia di avere un orizzonte tanto più vasto, di sentire le campane di Dierico e di Paularo suonare a tutte le ore, e soprattutto a mezzogiorno, il che significava per noi che era finalmente arrivata la pausa per mangiare. Era bellissimo sconfinare verso Paularo e la Carnia portando le mucche al pascolo di Casera del Mestri (già dismessa a quel tempo) dove c’era acqua abbondante e erba fresca, con le capre che si inoltravano verso il Palon del Mestri e il Sernio. Andavano a brucare stelle alpine fin oltre la forca Nuviernulis, a 1800 metri. Immagina quanta paura e quanto pianto nei primi tempi per noi piccoli pastori quando, verso l’imbrunire, dovevamo andare così lontano a recuperare quelle diaboliche bestie. Ma con il trascorrere del tempo si cominciava a prendere possesso del territorio e a conoscere la mont di Flop, la località detta “Campagne” perché era il pascolo più vasto, la strada della Stangjade, detta così dalla staccionata che la proteggeva dal ghiaione che scende verso il Cuel Forcjet e l’odierno Rifugio Grauzaria. Da questa parte si andava pure a raccogliere l’argilla per stuccare e mantenere impermeabile la vasca d’acqua sotto il cjampeit.
Restavamo lassù circa 40 giorni, quindi fino al 10 agosto, e poi ritornavamo a Flop; capitava spesso che i temporali più forti e la grandine scardinassero il tetto di scandole e ci piovesse addosso nei nostri giacigli sul soppalco. Ricordo che un anno il 24 luglio sono caduti 25 cm di neve, è stato un disastro perché non avevamo immagazzinato scorte di fieno, e per tre giorni c’è stato un muggire disperato degli animali che non avevano nulla da mangiare. Le donne della vallata ne hanno portato su un po’ a spalla ma non bastava, e i poveri animali erano disperati.”
Rivâ in Flop
Dopo il colloquio con Corrado, ogni volta che percorro il sentiero che porta al Rifugio Grauzaria e al Foran de la Gjaline posso ricostruire la vita di un tempo, e ogni mio passo assume un nuovo significato. A Flop, anzi in Flop ci si arriva in meno di mezz’ora dalle case dei Nanghez, a 750 metri di quota. Nel bosco di faggi per un breve tratto il sentiero conserva ancora le sue sembianze primitive di larga mulattiera lastricata. Il cjampeit nei primi anni Settanta è stato rimboschito con pino silvestre, un’essenza arborea del tutto fuori luogo qui, e oggi è difficile decifrarne l’estensione.
I resti delle costruzioni della malga sono semi-sepolti sotto la fitta vegetazione di ortiche e lamponi, solo l’abbeveratoio, il laip, ancora resiste. Ma è secco, perché l’acqua veniva presa nel rio 200 metri più sopra con delle grondaie di legno, che già all’epoca ogni temporale asportava e i pastori dovevano immediatamente risistemare. Nella piccola conca di Flop, solo la Sfinge è rimasta uguale.
Dal volume di Enrico Marchettano “I pascoli alpini della Carnia e del Canal del Ferro”, Udine 1911
Le malghe di questo vastissimo comune [ Moggio, NdR] trovansi in maggior numero nella valle percorsa dal torrente Aupa (…) In generale, come si può presumere dalla natura geologica della regione, si tratta di malghe più povere di quelle della Carnia, e poste in meno felici condizioni di accesso e di giacitura. L’affitto complessivo che ritrae annualmente il Comune di Moggio dalle sue malghe è di Lire 7862; l’affittanza è novennale.
Flop: Trovasi sul versante occidentale della valle, tra la Creta Grauzaria e il monte Flop, ai piedi del Sernio. Carico ordinario: 50 bovini, 60 capre e poche pecore. Consta di due comparti, il più alto dei quali denominato anche Foran da la Gjaline. Fabbricati in condizioni mediocri inferiormente, e cattive nel comparto superiore. Il comparto basso dispone di acqua sorgiva, che viene condotta alla casera per mezzo di acquedotto in ferro; l’altro comparto è privo d’acqua, e deve giovarsi di quella delle limitrofe malghe di Paularo.
©Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO” e 2009 per “Tiere furlane”; le foto risalenti agli anni ’60 sono riprodotte per gentile concessione della famiglia Gardel dei Gjaloz.