Ricordi e riflessioni di Varna Mansutti, maestra di montagna, che negli anni Sessanta ha insegnato nei più remoti paesi del Canal del Ferro.
Friuli, censimento del 1921: nel comune di Moggio la borgata di Moggessa di Qua conta 135 abitanti, Moggessa di Là 110; Stavoli ne ha ben 175; l’attuale Chiusaforte centro conta 1544 abitanti, mentre oltre il Fella Raccolana fa comune a sé con 1569 abitanti, di cui 143 a Patoc, 97 a Pezzeit, 107 a Tamaroz; Dogna con il suo canale ne ha 1542 (oggi 260!!); in val Resia la sola Stolvizza ne ha 720. Sono passati novant’anni e la popolazione è stata letteralmente “decimata”, ma ancora nei primi anni Sessanta del secolo scorso in ognuno di questi paesi c’era una scuola.
Varna Mansutti, udinese, classe 1934, all’anagrafe Anna Maria perché durante il fascismo non era permesso battezzare i bambini con nomi “stranieri”, nel 1956 è una maestrina di 22 anni quando viene chiamata per una supplenza in quel di Moggessa, il paese più disagiato delle nostre montagne, raggiungibile da Moggio solo a piedi con un paio d’ore di cammino su faticosa mulattiera.
La valigia tal zei
“Avevo già insegnato come supplente nel 1955 a Stolvizza ed ero preparata a tutto, ma andare a Moggessa è stato davvero un trauma – mi racconta Varna, energica signora con le idee ben chiare, rievocando quegli anni lontani – era il 2 dicembre 1955, e mi ricordo che mi accompagnò mio fratello, che all’epoca aveva solo 17 anni, e che è poi dovuto tornare indietro da solo. A Moggio è venuta a prendermi la signora Geltrude, che mi avrebbe ospitato lassù: si caricò la mia valigia tal zei, era un tipo forte, una vera montanara. Bisognava salire fino alla selletta, continuare fino alla prima borgata, Moggessa di Qua, scendere giù fino al rio del Mulino e risalire finalmente a Moggessa di Là, dove c’era la scuola. Nel paese non c’era ancora la luce elettrica, solo candele o lumi a petrolio. La signora Geltrude per risparmiare teneva sempre molto bassa la fiammella del lume, e io che nel pomeriggio dovevo preparare le lezioni, non vedevo l’ora che lei andasse nella stalla ad accudire gli animali per rialzarla. Ma lei immancabilmente quando tornava me la riabbassava. Mio padre, che era elettricista, in seguito mi avrebbe procurato, per vederci un po’ in camera, un piccolo abat jour con due pilette.”
Le castagne per contare
La scuola era sistemata in una casa disabitata, visibile ancor oggi (la casa della meridiana), vicino alla chiesetta.
Varna ricorda: “L’aula era al piano superiore, si saliva con una scaletta di legno, era una stanza piccola con una stufetta a legna che faceva un fumo così terribile che bisognava tenere la finestra aperta anche in pieno inverno per non soffocare, così finiva che si stava in classe con il cappotto. Era una stufa strana, fatta di lamiera, e la legna era verde, che solo fischiava e non scaldava niente. I bambini erano 15, una pluriclasse. Era molto difficile farli lavorare tutti contemporaneamente; così mentre io spiegavo ai ragazzini più grandi, quelli più piccoli disegnavano, e viceversa. A scuola portavano noccioline o castagne per fare i conti, non avevamo altri sussidi didattici, lassù non ci mandavano proprio niente.”
Riguardando una vecchia fotografia Varna si ricorda ancora il nome di tutti i bambini, Beppino, Dina, Olga, Antonietta, Fioretta, Gentile, Ezio, Dorina, Valeria, e il racconto fluisce spontaneo: “Venivano a scuola volentieri, erano intelligenti, attenti, imparavano subito, e molti di loro hanno continuato alle medie. Certo erano un po’ diversi rispetto ai bambini di altri paesi di montagna perché vivevano in un mondo tutto loro, chiuso come uno scrigno. Non conoscevano altri modi di vivere e molti non erano mai stati nemmeno a Moggio, non avevano mai visto né una macchina né il treno. La scuola portava loro il mondo di fuori.”
La via della montagna
L’orario della scuola era dalle nove a mezzogiorno e dalle due alle quattro del pomeriggio, e come in tutte le scuole di montagna il giovedì si faceva festa.
“Io all’epoca abitavo a Feletto – continua Varna – e andavo a casa due volte alla settimana: il sabato pomeriggio e il mercoledì pomeriggio. Al mattino bisognava alzarsi alle quattro per andare a prendere il treno che partiva prestissimo. La stazione di Moggio era molto lontana dal paese e con una fatiscente corrierina si arrivava fino a Muec centro. Ancora buio era, e faceva un freddo che adesso nemmeno ce lo sogniamo!” Dal capoluogo cominciava per Varna la lunga camminata. “Innanzitutto dovevo salire per la strada fino a Moggio di Sopra (Muec ad Alt) e poi farmi quasi due ore di cammino. Ricordo che Efrem, il titolare di un’osteria a Moggio di Sopra, sapendo che passavo mi chiamava sempre per offrirmi il caffè. Lì aspettavo fino alle sette che venisse la prima luce e poi prendevo la via della montagna. Un giorno ho visto venire giù per il sentiero un vecchietto con un lampione in mano. Mi ha chiesto: “No ae pore, signorine, no ae pore da bolp?” ma io dopo poco mi ero abituata e non avevo paura di niente! I bambini di Moggessa di Qua mi aspettavano e facevano la strada insieme a me. Loro camminavano veloci, erano come gli uccelli. Ma quando tornavo a Udine anch’io avevo le ali ai piedi, perché non volevo farmi sorprendere dal buio.”
Una comunità viva
Ma come viveva la gente di Moggessa nel ricordo di Varna? “Erano veramente isolati, ma a parte questo non vivevano male. Nel 1800 era davvero un grosso paese pieno di vita, ma comunque sessant’anni fa era ancora una comunità viva. Avevano un po’ di soldi perché gli uomini erano tutti fuori a lavorare, facevano i boscaioli all’estero oppure in Carnia. Tutte le famiglie avevano l’orto, un campicello, una mucca e una capra, quello che mancava era solo la blave . Le donne che andavano a Moggio cul zei portavano su anche 50 kg di farina in una volta sola, e il mulino situato tra le due frazioni funzionava ancora regolarmente. Adesso lassù a vivere è rimasto solo un uomo anziano, Silvio, che però non è stato mio allievo.” Dopo 2 anni scolastici di supplenze brevi in vari paesini di montagna (Gniva, Stavoli, Chiaranda, Monticello, Tamaroz, Stolvizza) Moggessa entra di nuovo con prepotenza nella vita di Varna. Nell’autunno del 1958 Varna è in procinto di sposarsi, le nozze sono già fissate per domenica 19 ottobre. Inaspettatamente riceve una telefonata dal direttore didattico.
“Che sinti mo, signorine, cà e je une buine suplenze. Se accetta, signorina, avrà un lavoro sicuro per tutto l’anno.” Ma dove, chiede Varna, “A Moggessa!” – è la risposta. Così Varna su due piedi rinuncia alla licenza matrimoniale e il lunedì successivo è già al lavoro! Il direttore didattico, un tipo burbero ma schietto, le dirà più tardi di averla molto ammirata per questa decisione. Nel frattempo però Varna vive a Chiusaforte con il marito e se non altro non deve più alzarsi alle quattro del mattino.
L’arrivo del telefono
Varna insegna continuativamente a Moggessa per ben due anni scolastici: il 58-59 e il 59-60, abitando però non più da Geltrude, ma da quella siora Maria che ha ospitato anche Tito Maniacco e che viene ricordata nel suo romanzo-memoria Mestri di mont.
In quei due anni il progresso, sotto forma di telefono pubblico, è arrivato anche a Moggessa, ma si è fermato…a Moggessa di Qua. Varna ricorda che se al telefono era cercato qualcuno di Moggessa di Là, il suo nome veniva gridato a gran voce tra una borgata e l’altra: “Si clamavin da un cuel a chel altri.” C’era sempre chi sentiva e andava a avvisare l’interessato. La luce elettrica però non arriva ancora. Nel 1961 Varna ottiene un posto di supplente annuale a Tamaroz in val Raccolana. Finita la faticosa esperienza di Moggessa, non le sembra vero di poter lavorare quasi sulla porta di casa! Tuttavia all’epoca i maestri erano tenuti ad abitare proprio nel posto in cui insegnavano, e così anche se Tamaroz è a soli 9 km da Chiusaforte non poteva tornare a casa la sera: per fortuna sopra la scuola c’era un semplice alloggio a disposizione per la maestra!
Il sibilo delle valanghe
Moggessa però aveva un grosso vantaggio rispetto alla val Raccolana: “Là c’era sole tutto l’anno – racconta ancora Varna – mentre a Tamaroz niente! Il 10 ottobre è l’ultimo giorno in cui il paese vede il sole, e si deve aspettare fino al 25 febbraio per vederlo ricomparire, per soli 10 minuti, da dietro la bastionata delle montagne. D’inverno, nel silenzio della notte, stavo con il fiato sospeso ad ascoltare il sibilo delle valanghe che arrivavano vicinissime al paese. La scuola era in una posizione sicura, ma sapendo che in un giorno di carnevale di qualche anno prima, quando la gente stava ballando al suono della fisarmonica, una valanga si è fermata proprio davanti a una casa, non mi sentivo per niente tranquilla.” Ma le peregrinazioni di Varna, anche se è finalmente entrata di ruolo, non sono finite: nel 63 insegna a Fusine, poi a San Leopoldo e infine di nuovo in val Raccolana, a Pezzeit e successivamente a Patoc.
Ma dal 1956 al 1965, in meno di 10 anni, si è ormai compiuto l’esodo dalla nostra montagna, e quando nel ’67 Varna arriva a Patoc vi trova un’unica alunna, Daniela. Tuttavia, per tenere aperta la scuola, vi erano state iscritte come “volontarie” due bambine più grandi, Luciana e Ornella, che avevano già finito la quinta elementare. “Allora la scuola era come l’ultimo baluardo che veniva abbandonato solo quando non c’erano più bambini – dice Varna – Una scuola è molto importante per la coesione dei gruppi familiari e per contrastare lo spopolamento, ha una sua valenza antropologica che oggi viene disconosciuta.Quali sono le parole d’ordine di oggi? Accorpare, tagliare, chiudere!”
© Antonietta Spizzo per “Il Nuovo” 2009