Nella sua trilogia dedicata al confine, la regista slovena Nadja Veluscek ha esplorato i condizionamenti e le lacerazioni che la “cortina di ferro” ha causato nella sua vita e in quella di un’intera comunità.
Un treno in movimento, un volto di donna al finestrino, uno sguardo assorto che ci dice che nel paesaggio che scorre si sta svolgendo un viaggio non solo nello spazio, ma anche nel tempo: queste inquadrature del film Moja meja – il mio confine, della regista e sceneggiatrice slovena Nadja Veluscek, ci accompagnano come un Leitmotiv nei ricordi della sua infanzia vissuta nella valle dell’Isonzo e a Gorizia, negli anni più difficili del dopoguerra.
“Sono nata con questo confine, oltre confine. Mia mamma era goriziana, mio padre della valle dell’Isonzo. Si sono sposati e il confine si è chiuso dietro di loro. Da quel momento la mia vita e la vita di tutti è andata a cozzare contro questa barriera invisibile, e perciò tanto più impenetrabile, che attraversava non solo campi, strade e giardini, ma anche i sentimenti, i pensieri, le aspettative.”
Poetico ed evocativo, ma al tempo stesso preciso e documentato (ma purtroppo secondo me ancora poco noto), il film riesce a ricreare un’epoca e a comunicare vicende tragiche di lacerazione con l’immediatezza delle immagini.
Il mio confine
Il mio desiderio di conoscere personalmente Nadja si concretizza in una giornata di gennaio, a Gorizia, al Kinoatelje, la benemerita associazione culturale transfrontaliera che raccoglie storie e testimonianze filmiche della difficoltà di vivere sul confine, e che si trova nella bellissima corte porticata che porta al Kinemax, in piazza Vittoria. Dolce e grintosa, sorridente e diretta, una voce che ti cattura, Nadja è proprio come me l’ero immaginata.
Di lei so già molti particolari biografici, so che è nata a Plave, nella valle dell’Isonzo, il 9 maggio del 1948; so che si è laureata in Lingue a Lubiana; so che ha fatto l’insegnante di italiano a Nova Gorica e di sloveno a Gorizia; so che lavora in coppia con sua figlia Anja Medved, 38 anni, laureata in regia teatrale all’Università di Lubiana; che prima dei lavori dedicati al confine aveva girato tre documentari: Collio in fiore, Niso letele ptice – Non volavano uccelli (sulla prima guerra mondiale),e Nora Gregor, nel centenario della nascita dell’attrice goriziana. Così entriamo subito nel vivo del discorso parlando dei suoi film sul confine.
“Moja meja, nel 2002, è stata per noi un’esperienza determinante. – racconta Nadja – Il film nasce da un intrecciarsi di esperienze personali supportate da una accurata ricerca nell’archivio cinematografico di Lubiana. Infatti lo abbiamo chiamato “videoracconto documentario”. Ha avuto un grandissimo successo: ha toccato un tasto che evidentemente non era mai stato toccato prima. La mia è stata forse più una scelta intuitiva che di progetto. Nel 2002 la gente aveva ancora paura di parlare, ma al tempo stesso bisogno di raccontare. E non si trattava di storie condivise come quelle di guerra, ma di storie intime di paura, di quelle che non vai a raccontare. Alla fine mi accorgevo che provavano sollievo, mi erano quasi riconoscenti.”
Non ci sono altri film che si occupano di questa tematica così attuale e vicina a noi. “Sì, me lo dicono in molti, conferma Nadja. Come precedente c’è solo un film jugoslavo del 1961 fatto per la TV (che infatti abbiamo usato come “materiale d’epoca”) intitolato “Ma dov’è la cortina di ferro?” di Mako Sajko, ma era una visione fatta dal centro, che veniva dal potere.”
Nel film si parla della “linea bianca”, quella tracciata dagli alleati nel 1947 e che sarebbe diventata poi un muro quasi invalicabile attraverso la città.
Quella linea immaginaria
Il nuovo confine attraversava la parte orientale di Gorizia, cercando di dividere i sobborghi sloveni dalla città italiana. Tutte le testimonianze concordano: “per noi il confine era solo una linea immaginaria”, per noi era “ impossibile da credere che ci avrebbe diviso” oppure “I primi giorni non erano tanto severi, abbiamo preso tutto alla leggera, anche se ci sentivamo feriti perché il filo spinato ricordava un campo di concentramento. Solo in seguito ci siamo accorti di come era terribile”. Questo comune sentire, che forse oggi a posteriori può stupirci, va inquadrato nel suo contesto storico: Gorizia non aveva mai conosciuto un confine nelle sue vicinanze, in quanto fino al 1918 aveva fatto parte integrante dell’Impero Asburgico, e durante il ventennio fascista il confine si trovava spostato un centinaio di km più a Est.
In Moja meja vediamo in primo luogo testimonianze del papà, della mamma e della zia di Nadja, e poi di innumerevoli altri testimoni che raccontano, talora anche con humour pur nella tragedia, momenti cruciali della vita sul confine, come Il cimitero diviso di Miren, la “marcia delle scope”dell’agosto 1950, la costruzione di Nova Gorica, la posa delle mine e la costante vigilanza delle pattuglie dei “graniciari”: “gli spari non erano solo intimidatori, era la paura a vigilare sul confine”. Poi Nadja racconta le vacanze estive passate dalla nonna a Gorizia, il ritorno a casa con i vestiti nuovi cuciti “in crescita”, il giocare sulle rive dell’Isonzo, la visita di Tito a Anhovo. Il film termina con la storia struggente delle caramelle, che la nonna getta alla nipote oltre la sbarra di confine e che finiscono nella terra di nessuno.
Peccati di confine
A questo punto Mesto na travniku – La città sul prato, del 2004, è la logica conseguenza del film precedente: il concretizzarsi del confine produce Nova Gorica, una città che nasce dal nulla ma con un progetto ben preciso. La prima parte è più di “fiction”, la seconda è la storia dell’architettura della nuova città.
La trilogia si conclude nel 2005 con Sesivalnica spomina – Ricuciture di memoria , in cui Nadja e Anja continuano la storia del confine allargando la loro indagine alla valle dello Judrio e alle valli del Natisone, intrecciando le testimonianze di italiani e sloveni. “Sono luoghi interessanti e per me erano tutti da scoprire – continua Nadja – Sai, per me ogni documentario è sempre una ricerca e io voglio continuare a lasciarmi sorprendere: un documentario è un’indagine, non è un film con una sceneggiatura da scrivere e poi da realizzare. C’è la tensione, quello che scopri è sempre più bello di quello che immagini, è un viaggio. Mi sembra di andare alla ricerca di storie come si andrebbe nel bosco alla ricerca di funghi; io e Anja insieme pensiamo gli argomenti, poi io mi butto a capofitto, mentre mia figlia che è più riflessiva mette ordine nel caos delle storie.”
Del 2006 è il film Proti toku – Contro corrente, dedicato ai campioni sloveni di kayak di Solkan-Salcano, a cui seguirà nel 2008 un nuovo lavoro dedicato interamente all’Isonzo. E’ passato poco più di un mese dall’epocale caduta del confine, tu Nadja come l’hai vissuto? “Nella notte tra il 20 e il 21 dicembre, durante i festeggiamenti al valico di San Gabriele a Gorizia, io e Anja abbiamo allestito un “videoconfessionale” per raccontare i “peccati di confine”: questa iniziativa ha avuto un grande successo e sono state raccolte oltre 7 ore di videoregistrazioni. Lo abbiamo chiamato EU-foria.”
La memoria del corpo
E’ arrivato il momento di parlare del confine “dopo”. Nadja non si fa pregare:
“Si parla del confine in testa, ma io lo sento nel corpo, il confine! Arrivando al confine faccio ancora automaticamente i movimenti cui ero abituata. Ci passavo molte volte al giorno, non avevo paura, ero amica dei finanzieri e dei poliziotti del valico, li salutavo, scambiavo due parole con loro. Era quasi bello. Ma il confine era un controllo che non faceva mai piacere. Pian piano riesco a lavar via da me questa sensazione, sento una libertà nuova. Per quel che riguarda gli altri, vedo che la gente si muove con più leggerezza, con più frequenza. A Nova Gorica senti parlare italiano molto di più di prima.
E poi sento di appartenere sempre di più a Gorizia. E’ bello poter dire che un luogo ti accetta. Gorizia è sempre stata la mia città, ma non del tutto, c’era qualcosa che mi sfuggiva e che adesso è cambiato. Mi sembra che viviamo in un’era di ricongiunzione: se mi consenti questa metafora edilizia, è come quando butti giù una parete in una casa, per un po’ ti sembra che sia ancora lì, poi cominci a dimenticarla: allora hai creato un nuovo spazio più vasto. Uno spazio unico.”
Nadja sta silenziosa un attimo, poi riprende:”Sì, mi sembra di captare questi segnali. La gente di Lubiana o di Pordenone certo non può capire. Solo adesso che il confine non c’è più ci rendiamo conto della sua totale assurdità. Io sono nata assieme al confine e prima non mi ponevo tanti problemi. Per noi il confine era un punto di riferimento continuo, lì finiva un mondo e ne iniziava un altro, anche la luce sembrava diversa, anche il colore dell’erba. Invece di diverso non c’era proprio niente, se non la lingua. Oggi certo i giovani non sentono più differenze, ma noi abbiamo avuto anche due sistemi politici diametralmente opposti. La grandissima spaccatura del confine faceva sentire spesso noi sloveni insicuri, poveri, quasi umiliati di fronte alla maggior ricchezza dell’Italia. In Slovenia certo mancava questa parte materiale ma c’erano tanti altri valori sociali, e le illusioni politiche di una società più giusta.”
NB: I video di Nadja Veluscek si trovano a Udine nelle librerie Tarantola, Friulibris e Friuli oppure possono essere richiesti direttamente all’Associazione Kinoatelje di Gorizia, tel. 0481-33580 (www.kinoatelje.it)che provvederà alla spedizione in contrassegno.
© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”