Per ottusità e in nome del facile guadagno, nel corso degli ultimi centocinquant’anni molti animali autoctoni sono stati abbandonati al loro destino e si sono estinti.
©Antonietta Spizzo 2006 per “IL NUOVO”.
La ricerca di nicchie di biodiversità animale in Friuli mi ha portato ripetutamente a imbattermi nelle tracce dei numerosi animali estintisi nel corso dell’ultimo secolo.
In tutti i settori della zootecnia ci troviamo di fronte alla stessa realtà: le vecchie razze sono ormai quasi completamente scomparse oppure ne sono rimasti pochissimi esemplari. La causa è semplice: l’allevamento è ormai in gran parte scollegato dall’ambiente in cui si svolge, e le razze locali, rustiche, che si erano adattate ad ambienti con foraggi poveri, avevano anche basse produzioni e non hanno più interesse per gli allevatori odierni. Le razze moderne, grazie anche alla fecondazione artificiale che permette di superare le distanze con il trasporto del seme, sono letteralmente internazionali, anzi “globalizzate”.
Ma se da un lato certi cambiamenti erano inevitabili, dall’altro le scelte compiute dall’alto sono state spesso assai miopi, e alla fine l’antico patrimonio genetico del Friuli è andato perduto.
La legge regionale n.11 del 2002 cerca di salvare il salvabile, ma con molto ritardo. Altre regioni italiane, come la Toscana e l’Emilia, si sono attivate in questo campo fin dagli anni ’70 e hanno salvato le loro vecchie razze bovine, tra cui la Reggiana, dal cui latte si ottiene – guarda caso – il miglior parmigiano-reggiano. Il crescente interesse, da parte dei consumatori più avvertiti, per i prodotti di alta qualità alimentare, ha reso anche gli allevatori più attenti verso il recupero di certi animali.
I bovini
Per gli ultimi decenni dell’Ottocento è documentato un vero mosaico di razze che si adattano non solo alle specifiche necessità della montagna e della pianura, ma quasi a quelle di ogni vallata, di ogni angolo del Friuli. Dai dati ufficiali della Statistica Pastorale del 1868 si ricava che le mucche da latte venivano allevate quasi esclusivamente in montagna.
Si trattava di popolazioni di ceppo alpino, animali di taglia piccola e peso ridotto (sui 3-4 quintali) che producevano al massimo 18-20 q di latte all’anno (contro ai 60 circa odierni). In Carnia si trovava la bovina Cargnella, di solito pezzata rossa o pezzata nera, ma anche con una fascia bianca sulla schiena (las codulas) oppure con il muso bianco (las beletas) o addirittura tigrata! Nella zona dei Forni Savorgnani prevaleva il bestiame Bigio di tipo bellunese; nelle valli del Torre e del Natisone c’era invece la vacca Slava, simile alla Cargnella ma più piccola e meno produttiva. Ancora: in Val Cellina c’era una Grigia molto piccola a causa dell’ambiente impervio, in val Resia e nel Canal del Ferro c’era bestiame di tipo Pinzgau austriaco. In pianura, per quanto a noi oggi sembri strano, prevalevano animali da lavoro: la vecchia razza friulana a mantello formentino (color dal forment, cioè arancio chiaro) e nella Destra Tagliamento la grigia alpina, particolarmente adatta al lavoro su terreni pesanti. Una menzione particolare merita la razza Toppana, ora del tutto estinta, dal mantello color bianco sporco o formentino, che era diffusa nella zona di Toppo e Travesio e che aveva triplice attitudine: da latte, da carne e da lavoro.
Sempre dalla stessa Statistica Pastorale apprendiamo che c’erano pochi tori, brutti e spesso denutriti. Ecco quindi che all’inizio del Novecento si cominciano a importare animali riproduttori dalla Svizzera e dalla val Pusteria; però la selezione è molto lenta. Le devastazioni della prima guerra mondiale distruggono il 70 % dell’allevamento friulano e impongono di ricominciare praticamente da zero.
Ma se per tutti gli anni 20 si trattava solo di ricostituire in qualche modo il patrimonio zootecnico perduto, ecco che negli anni 30 il fascismo interviene in modo pesante a uniformare tutto: nelle stazioni di monta viene imposto l’uso esclusivo di riproduttori della razza Bruna alpina in montagna e della Pezzata rossa in pianura.
E adeguandosi a questi ordini dall’alto ecco che una razza come la Toppana, che ancora nel 1931 veniva ritenuta particolarmente idonea al territorio e meritevole di ulteriore diffusione e miglioramento, tanto da crearne l’albero genealogico e il primo mercato-concorso ( ne furono censiti oltre 2000 capi!), già nel 1937 viene abbandonata completamente e si estingue in pochi anni.
Né vanno meglio le cose nel secondo dopoguerra: la meccanizzazione degli anni 50 segna la fine delle razze da lavoro come la grigia, che nel giro di 20 anni viene sostituita con la pezzata rossa, chiamata prima friulana e poi italiana. In montagna i tecnici insistono con la Bruna alpina, una mucca che è sì più produttiva ma è molto più delicata, ha problemi di parto, e ha bisogno di maggiori cure. Ma anche per la Bruna alpina di vecchio stampo si preparano brutti tempi: all’inizio degli anni 70 viene sostituita quasi ovunque con la Brown-Swiss americana, animale ancor più esigente, che deve essere trattato quasi con i guanti bianchi. In pianura ci sono solo frisone da latte oppure le pezzate rosse da carne e da latte (duplice attitudine). Per favorire gli interessi dei grandi produttori è stata condotta anche una lotta contro l’alimentazione a erba, a favore della soia e dell’insilato, adottando il modello americano. Il risultato è che il formaggio viene completamente diverso da quello di una volta. Così arriviamo ai giorni nostri: sono estinte la vecchia pezzata rossa friulana, la cargnella, la slava e la toppana. Le razze sono tre al massimo e le mucche sono sempre di meno. Delle piccole aziende sopravvive solo qualche”temerario”, per lo più in montagna.
Gli ovini
Contrariamente a quanto si pensa, un tempo l’allevamento ovino era diffusissimo in pianura perché venivano sfruttati i pascoli di uso collettivo, documentati anche dai numerosissimi toponimi come comugne, pascut, pradarie, prât, prâs, pradis…
E le pecore erano tante, dappertutto, anche se gli allevamenti non erano di grande entità. Lo scopo era triplice: lana, carne e latte. Gaetano Perusini nel 1914 parla di “pecora friulana” e in svariati testi si trova la dicitura “la nostra razza”, oppure “la razza indigena”.
Le zona più vocata era la media pianura, dal Tagliamento fino a Udine, con una particolare densità in quello che potremmo chiamare il “triangolo delle pecore”: Sedegliano-Codroipo-Basiliano, dove la maggioranza dei toponimi si realizza proprio sul modulo prato. Famosissime in tutto il Friuli e oltre erano poi le saporite formaggelle di Villorba (formaelis di Vileuarbe), di cui parla un bellissimo articolo di Enos Costantini apparso su Sot la nape del settembre 1989.
In un Bollettino Agrario troviamo la foto delle pecore di razza friulana premiate alla Fiera di Verona nel 1935. La politica autarchica del fascismo sostiene molto l’allevamento della “pecora friulana” elogiandone anche la qualità della lana, a Codroipo vengono fatti anche 3-4 concorsi, ma già negli anni ’50 le pecore spariscono completamente dalla pianura : la meccanizzazione insidia i pascoli trasformandoli in arativi, le latterie non accettano più il latte di pecora e la lana grezza filata in casa non soddisfa più le mutate esigenze dei consumatori. I greggi consistenti che vediamo ancor oggi all’alpeggio sono di pecore bergamasche (da carne).
Gli equini
Il “cavallo friulano” da sella o da tiro leggero rapido, di taglia media, con il mantello spesso grigio pomellato, vigoroso e veloce, era un trottatore eccezionale e fu alla base della selezione delle migliori linee di sangue dei trottatori italiani. Purtroppo era estinto già all’inizio del ‘900. Nel 1901 il dr. Romano ne scrive un famoso “necrologio”. La sua scomparsa è legata alla diminuzione dei pascoli, alle nuove condizioni agricole, al fatto che era un po’ troppo piccolo per l’esercito e alla supremazia dei trottatori americani negli ippodromi. Nel Cividalese si aveva anche il cavallo caporettano, derivato dal Norico ma un po’ più piccolo.
I suini
Estinto definitivamente è il maiale nero di Fagagna, che dopo aver resistito fortunosamente ai numerosi tentativi di “miglioramento” già iniziati alla fine dell’800, era stato recuperato quasi in extremis e rivalutato negli anni Cinquanta. Era un animale molto rustico, dalla carne saporitissima.
Ma il suo apogeo era destinato a durare molto poco: l’ultima mostra provinciale si tenne nel 1964 a Fagagna. Già all’allevamento domestico si sostituisce quello intensivo e la propensione degli allevatori va alle razze bianche inglesi o danesi, le stazioni di monta locali iniziano a chiudere e i riproduttori neri scompaiono.
Amare constatazioni
E che dire dell’immenso patrimonio di biodiversità nelle innumerevoli popolazioni locali di capre, galline, oche, anatre, conigli, piccioni che sono andate perdute per sempre nel corso degli ultimi cent’anni e di cui è rimasta anche scarsa documentazione? Nell’allevamento non c’è stata davvero nessuna passione, se gli animali, nel momento in cui non sono serviti più, sono stati eliminati del tutto, come oggetti obsoleti da gettare. “Razze che hanno sfamato o aiutato nel lavoro generazioni di nostri antenati scompaiono definitivamente dalla faccia della terra solo in nome della maggior produttività e del facile guadagno. Salvaguardandole avremmo per lo meno compiuto un atto di grande civiltà. Era un regalo che la natura ci aveva tramandato per il nostro solo beneficio” (Elia Tomai).
Ringrazio l’ERSA per il materiale bibliografico e iconografico messomi a disposizione, e in modo particolare il sig. Sandro Menegon, le cui esaurienti spiegazioni sono state il mio filo di Arianna per avventurarmi in un campo tanto vasto e complesso.