In compagnia di Tullio Fior andiamo alla scoperta delle centinaia di varietà di alberi da frutto che hanno reso famosa la frazione di Arta e che ancora sopravvivono e vengono conservate con sapienti innesti.
In questo viaggio alla ricerca della biodiversità una tappa obbligata è Cabia, frazione di Arta, un paese soleggiato “sito in posizione bellissima sopra un verde terrazzo a cavaliere delle valli della Bût e del Chiarsò, celebrato per le ciliegie e l’acquavite di prugne” come scriveva Giovanni Marinelli nel 1912. Qui, a un’altitudine media di 800 metri, dove il sole batte dalla mattina alla sera, vivono e prosperano ancora centinaia di alberi da frutto, molti di antiche varietà, a formare una vera e propria foreste di pomârs, come ci racconta Tullio Fior, guardia forestale regionale e autentico appassionato di alberi da frutto. Sarà lui la nostra guida attraverso il paese e sugli erti pendii fitti di alberi: peri meli ciliegi che ora, ai primi di maggio, iniziano a fiorire.
Ma il nostro viaggio alla scoperta del bio-tesoro di Cabia comincia inaspettatamente già a casa di Tullio, dove su un tavolo sono distribuite ordinatamente otto diverse qualità di fagioli in attesa di essere seminati. Rossi, neri, gialli, screziati, striati, bianchi, violetti, sembrano le tessere di un mosaico. Poi cominciamo a parlare di frutta: “I nostri vecchi, quando andavano a fâ modons, in Stiria, Trentino, Germania, si portavano a casa las incalmas, le marze delle varietà di alberi che trovavano là ed è così che a Cabia esistono oltre 100 varietà tra peri e meli.
Con la gerla in spalla
Da sempre l’economia del nostro paese è stata legata alla vendita della frutta: le donne, vecchie e giovani, scendevano a valle con la gerla (zei) piena, 40 kg sulle spalle, e andavano a vendere casa per casa. Andavano con loro anche i bambini, che avevano un zeiut più piccolo, ci andavo anch’io con mia nonna. Si cominciava in giugno con le ciliegie, si continuava con le pere e le susine e in inverno si vendevano mele e noci. Ecco qui una foto a suo modo “storica” scattata a Paluzza nel 1970 : le ultime venditrici ambulanti, tra cui mia cugina. Le ragazze con quei soldi si facevano il corredo. Ricordo che andavamo anche con la corriera a Paularo, Tolmezzo, Illegio, Timau. Una volta ho ribaltato il zei con dentro le ciliegie e ho dovuto raccoglierle una a una, non lo dimenticherò mai.
Tutte le famiglie che avevano un pezzo di terra dove coltivavano alberi da frutto. Erano piante alte, 2-3 metri minimo, perché peri noci ciliegi venivano usati anche per il legno, l’unico problema era che facevano tanta ombra e allora c’era da diventare matti a spostare il fieno da sotto a seconda delle ore del giorno, in tempi in cui ogni fuscello di fieno era importante… Adesso che i prati non vengono più falciati gli alberi vecchi vanno morendo soffocati dall’edera, dai rovi e dalle erbacce, ma più spesso muoiono di sete, perché sul ripido l’acqua scorre via sull’erba alta e non penetra più nel terreno, questa è la legge della montagna.”
Cento mele diverse
“Ma vuoi sentire i nomi dei meli? I primi a maturare sono i mêi avostans, c’era una donna qui a Cabia che metteva dei campanelli sulla sua pianta perché i bambini non andassero a rubarle i frutti. E poi venivano i neranzins, i più rinomati e buoni che non venivano mai venduti perché ce n’erano pochi, i neranzons più grandi, chei da civole, a forma di cipolla, belli e buoni, chei da rusin, a polpa bianca o gialla, chei larcs, chei todescs, chei da Sudri, chei da canele, che sanno di cannella, i mêi dal fum con una specie di polvere sulla buccia, i verdons, a polpa gialla, il mêl rôs, di cui ci sono due tipi: quello a polpa bianca e buccia rossa, oppure quello a polpa rossa e buccia rossa, e poi ancora chei riâz di Cjabie, che in italiano chiamano “striato dolce”.
Sto ad ascoltare a bocca aperta Tullio che snocciola tutti questi nomi come fossero quelli di persone a lui familiari e non posso fare a meno di stupirmi un po’. Ma come fa a conoscerli tutti? E’ solo per la sua grande passione? “No, io credo che qui a Cabia tutti quelli della mia età li abbiano imparati fin da piccoli, anche perché ogni famiglia cercava di coltivare almeno una pianta per varietà. E adesso mio figlio a forza di sentirli da me ha imparato anche lui il nome di tutti i pomârs. Ma ce ne sono ancora, vuoi sentirli? C’erano quelli che si mangiavano cotti: il mêl dolç, con cui si fa la marmellata, il mêl cavoç, grande quasi come una zucca, si raccoglie in settembre e si mangia in dicembre, è veramente buono e da cotto butta fuori una schiuma zuccherata, i mêi dal fûc cotti nel forno dello spolert vengono come i fichi, i mêi da l’alto grado con cui si fa un infuso. E coi mêi lôps si faceva l’aceto.”
Antiche piante salvate
Scendiamo nel giardino di Tullio che ci mostra gli innesti di melo e di pero che ha fatto su numerose piante, anche tre o quattro diversi innesti per albero. “Ci sono ancora tantissime piante abbandonate nei prati da cui recuperare le marze per gli innesti e così mantenere le vecchie varietà. Vedi, per esempio questi sono i pêrs rôs, che hanno la polpa rossa come il sangue, una meraviglia. Siccome i bambini li andavano sempre a rubare erano stati tagliati tutti, ma io ne ho ritrovata una pianta a Lauco e l’ho reintrodotta a Cabia. Di peri ce ne sono sicuramente 50 varietà. Vuoi sapere un po’ di nomi? Davvero? Te li dico: i primi sono quelli di San Giacomo in luglio, poi per la sagra di Cabia che è l’ultima domenica di agosto maturano i pêrs da sagra, e poi ci sono i pêrs campanei, i pêrs da l’aghe, i pêrs da bossule, i pêrs da Lyre – che li ha portati il mio bisnonno dall’Austria- i pêrs di San Roc, i pêrs da coda stuarta, i pêrs dal ueli, i pêrs di Madeo, i pêrs dal Stramb. Questi, che maturano in settembre, li ha portati verso il 1880 un uomo di Cabia che si chiamava il Stramb; io ne ho uno grande. Ho anche un pêr martin che ha più di 200 anni, lo ha messo il bisnonno, che ha anche innestato il pêr da Rôse, che matura in inverno. Poi ci sono ancora las peruces, molto piccole, si lasciava che diventassero pastose, nere dentro, si cuocevano nel forno del pane che quasi tutte le famiglie avevano, e si mettevano a seccare sui graticci e duravano tutto l’inverno. Erano le uniche che si usavano per il ripieno dei cjarsons insieme a scuete fumade ed erba cipollina; si poteva fare anche un infuso buonissimo bollendole con fiori di tiglio, prugne secche, qualche pezzetto di mela di alto grado e frutti secchi di sambuco.
Per fare il most, cioè il sidro, si usano esclusivamente i pêrs martins, che vengono raccolti non uno per uno ma scrollati giù dall’albero (spacâts) in luna calante (bon di lune); poi li si fa riposare per 1-2 giorni in modo che fermentino e li si pesta con un pestello di legno in un grande truogolo di legno. Alla fine si mettono nel torchio; il mosto viene filtrato e messo in una damigiana fino al 15-20 novembre. Si travasa come il vino, in un giorno sereno in bon di lune, ed è buono da bere in primavera. Ha 6-7 gradi, ed era il nostro vino, perché qui no si veve uvarias, non avevamo viti.”
Ciliegi e susini
Saliamo insieme a Tullio verso la sommità del paese: i meli sono appena timidamente in fiore, mentre peri e ciliegi sono pienamente sbocciati. “Adesso a maggio qui c’è dute une neveade di flôrs. Le ciliegie sono il primo frutto che si poteva vendere, e ce ne sono di sette varietà; quelle rosse, dolci, per la marmellata e il kirsch; lis nerutis, piccole e dolci, non venivano vendute: per fare un chilo ce ne volevano troppe! Poi ci sono lis verzegnassis, nere e grosse; lis izules, originarie di Montenars, grosse e belle, quelle sì vendute; ches da sgnape, tra il rosso e il nero, tenute per vendere e per mettere in infusione nella grappa; lis durieses, bianche, di cui è restato un solo albero, e per finire lis amarenis.”
Dall’alto si può ammirare la confluenza del Bût con il Chiarsò, la pieve di Zuglio sull’opposto versante, ma soprattutto il grande testone del Sernio ancora ricoperto di neve. Sui prati, così ripidi che la gente doveva lavorare con i ramponi ai piedi, è tutto un inseguirsi di alberi da frutto che circondano il paese come una corona. “Vedi – mi dice Tullio Fior – qui ci sono i susini per cui il nostro paese era così famoso. Noi qui a Cabia la susina la chiamiamo brundul, adatta per lo sliwowitz è solo quella ovale, non quella tonda; gli altri tipi venivano venduti oppure si facevano seccare o si mettevano nella grappa; poi ci sono gli emoli gialli che chiamiamo botaç, quelli arancione-rosso che chiamiamo brundulissis e infine le cjochetas, verdi e dolci come il miele.”
Un paese tenace
Passiamo davanti a numerosi orticelli ben coltivati. La biodiversità di Cabia non è finita: “Abbiamo numerose varietà di cappucci per i crauti, 20 qualità vecchie di fagioli e altrettante di granoturco, che noi chiamiamo sorc turc e non blave come in Friuli. Quando il sorc turc è giovane e “ha il latte”, per un periodo di circa 20 giorni, i tassi ne sono molto ghiotti. Una volta, la gente del paese per scacciarli faceva i turni di guardia di notte, camminando per i campi con i campanacci.”
Scesa una ripida stradina acciottolata e passati davanti al bar, Tullio ci mostra ancora l’orgoglio del paese, la latteria che lavora giornalmente 4 quintali di latte. E’ l’unica piccola latteria rimasta in funzione in Carnia. “Qui quasi tutte le famiglie hanno ancora un paio di mucche. Per me, mia moglie e mio figlio è un bellissimo hobby. Cabia è un paese bello, abitato da gente tenace, uno dei pochi paesi in cui sono restati a vivere i giovani e si coltiva ancora la terra. Eravamo in 350, adesso siamo ancora 270, e nessuno è senza lavoro.”