Solo poche decine di peschi sopravvivono ancora a Rodda, soleggiato paese nella valle del Natisone, che ne trasse ricchezza per quasi 80 anni.
Percorrendo in questi giorni di sole primaverile la valle del Natisone da S.Pietro a Pulfero, non si può fare a meno di notare, sui fianchi delle montagne ricoperti ormai di bosco, gli sbuffi bianchi dei ciliegi in fiore, ma nulla potrebbe far immaginare che fino a trent’anni fa da Brischis alle più alte borgate di Rodda il colore dominante non fosse il verde né il bianco, ma il rosa dei peschi, una coltivazione che costituiva “una vera oasi fruttifera che richiama compratori anche da lontano”, come scriveva nel 1912 Olinto Marinelli nella sua “Guida delle Prealpi Giulie”.
A dire il vero la mia curiosità si era destata quando qualche anno fa a Pegliano, il paese proprio dirimpetto a Rodda sull’altro lato della valle, una persona incontrata per caso mi aveva detto: “Là a Rodda con le pesche stavano bene, venivano su dalla pianura i camion per comprarle! Lì da loro era tutto un giardino. Da lontano all’epoca del trattamento con il solfato si vedeva tutto verde e poi all’epoca della fioritura… era come essere a Sanremo!” Da allora mi ero sempre riproposta di andare sulle tracce dei peschi di Rodda, ma tutti mi dicevano che non ne avrei trovati più. Ma come poteva essere sparita una coltura così importante in pochi anni senza lasciar segno? Solo con l’aiuto di Giovanni Coren di Ponteacco ho potuto completare la mia ricerca.
Borgate fertili di frutta
Rodda, un nome collettivo per una manciata di borgate “ fertili di frutta, sui ridossi e sui declivi meglio soleggiati delle propaggini del Matajur”, tanto per dirla ancora con il Marinelli.
Ci sale una strada tortuosa da Brischis, che inanella prima Zeiaz, Domenis, Bizonta, Cosanea, Cranzove e Pocovaz, cioè Rodda bassa, per poi attraversare in successione Lacove, Clavora, Ossiach, Tuomaz, Buttera, Uodgnach e Scubina, queste ultime le più alte, sui 550 metri di quota. La grande vasca di un lavatoio è un occhio verde chiaro rivolto al cielo, i campetti ancora coltivati sono rettangoli marrone tra l’erba. Un ripido sentiero porta in una mezz’ora alla chiesetta di S.Ulderico, un luogo-simbolo per gli abitanti di Rodda, su un esile terrazzo erboso sospeso sulla valle. Ma noi andiamo a Scubina dove ci aspetta Damiano Blasutig, che ha salvato una decina di peschi dalla scomparsa ed è ben felice di raccontarcene la storia.
Damiano, classe 1941, è nato qui, in questa casa bianca alta sulla valle, e ha vissuto in prima persona per quasi quarant’anni una straordinaria vicenda ormai dimenticata. Con cordialità e spontaneità Damiano prima mette sulla tavola cibo e bevande, poi inizia il suo lungo racconto.
Una nicchia ecologica
“Il pesco è una pianta delicata ed esigente, ma Rodda è una nicchia ecologica, ha un microclima così buono che da marzo a novembre stai sempre in canottiera! Ecco perché i peschi crescevano così bene. C’erano 5 tipi di pesche: le Laureke, a pasta gialla; le Alberte di giugno, gialle gialle, con la polpa che si staccava perfettamente dall’osso; le Alberte a cuore; poi le Ala, rotonde, gialle e rosse ma bianche dentro; infine le Uldinesi, un po’ più piccole ma certamente le migliori. La raccolta durava da metà agosto al 20 settembre. Ogni famiglia ne produceva da 70 a 100 quintali, e in media in tutto il paese se ne raccoglievano 50-60 q al giorno.
Fino al 1954, anno in cui fu costruita la strada, le pesche si dovevano portare giù fino a Brischis, poi invece venivano a prenderle con il camioncino (vi ricordate dei “Leoncino”?) commercianti da Gorizia, Trieste e Udine. In particolare venivano i Modonutti il lunedì, il mercoledì e il venerdì, fino al 20 settembre. Poi le pesche si vendevano in Veneto fino a Vicenza e venivano portate anche in Belgio e in Olanda.
Il pesco non è longevo, vive al massimo 15 anni, così ogni famiglia dal seme ricavava un centinaio di alberelli ogni anno, che venivano poi innestati in modo da rimpiazzare le piante troppo vecchie. I trattamenti venivano fatti 3 volte all’anno, in novembre, in gennaio e in primavera prima che sbocciassero le gemme. Si usava esclusivamente calce spenta, mischiata nell’acqua assieme al verderame e distribuita con la pompa a mano. La calce – che veniva comunque centellinata perché era preziosa – doveva avere 2-3 anni per non danneggiare la pianta. Le piante erano rotonde, fruttificavano “in giro in giro” e non erano coltivate in filare. Se si temeva che venisse una brinata nel momento in cui mettevano le gemme si facevano dei fuochi bassi e fumosi per scongiurare il pericolo.”
Venute dai Balcani
Ma quando è cominciata la coltivazione delle pesche? “Dicevano che le pesche le hanno portate dalla Grecia quei nostri compaesani che andavano a lavorare in tutti i Balcani… hanno provato a seminare il nocciolo… tutto sembra che sia iniziato così. A noi da piccoli ci dicevano che prima uno scoiattolo poteva salire dal fondovalle fino alla chiesa di S.Ulderico saltando di albero in albero senza mai scendere a terra, da quanto era fitto il bosco. Alla fine dell’Ottocento ogni famiglia aveva il suo frutteto, e le pesche erano famose già ai primi del Novecento. Hanno fatto i campi terrazzati man mano, e da Brischis al Matajur era tutto un frutteto.
Devi pensare che prima Rodda era poverissima, ma la coltivazione delle pesche ha portato un certo benessere che è durato fino al 1975, infatti il paese era cresciuto, vedrai quante belle case ci sono ancora. La maggiore euforia c’è stata negli anni 20-30 quando venivano camion da tutta Italia, e Rodda – che fino al 1929 era un comune autonomo con 500 abitanti – per le pesche ha vinto 2 medaglie d’oro alla Fiera dell’Agricoltura di Verona. Le nostre pesche avevano un colore speciale, quella più grossa l’ha coltivata Emilio Marseu, pesava 750 gr! E i tedeschi in vacanza venivano in paese e compravano le marze da innestare!
Quasi un reperto archeologico
Poi è finito tutto, bruscamente: dal 65 al 72 c’è stato un enorme calo della popolazione per via dell’emigrazione, e non conveniva più portare le pesche al mercato perché venivano pagate pochissimo e la burocrazia imponeva di avere la partita IVA, di rilasciare ricevute fiscali e mille altri cavilli. In due-tre anni si è perso tutto e le malattie e i parassiti hanno distrutto le piante ormai abbandonate a se stesse. Adesso in tutta Rodda ci saranno 50 piante, al massimo 60, produrranno 5-6 q di frutta. Se vuoi ti dico anche i nomi delle famiglie che le hanno, oltre a me: Birtig, Specogna, Sittaro e i Blasutig di Bizonta.”
Raccontami un po’ com’era il paese, allora. “Lo so che è difficile per te, oggi che ne restano solo labili tracce, riuscire a immaginare che il fianco della montagna era tutto terrazzato. Le frazioni sembravano sedute nei prati sotto il monte. Qui a Scubina in otto case vivevano 65 persone. Avevamo naturalmente anche le mucche, e c’erano piccole teleferiche per portare il letame nei terrazzamenti. Ma non c’erano solo le pesche, si coltivavano anche le mele Zeuka, e le Kabalauka, rosse, che andavano subito in farina ma cotte erano ottime per il mal di gola, tanto che i bambini spesso simulavano di stare male per avere questa ghiottoneria. Anche le susine rendevano. Le pere venivano coltivate in ogni buco, in ogni scarpata, c’erano le Kongres, le Napoleone, le Kaiser e le korè, pere invernali rustiche ma molto delicate, si mettevano a maturare in mezzo ai fagioli oppure nell’ottava (terzo taglio del fieno) ed erano pronte a Natale. Sull’orlo dei campi poi c’erano le viti. Il terreno era molto ricco, le verze non erano grosse ma profumate, i piselli e i fagioli sembravano pitturati. E la terra, proprio perché era così fertile, si è ricoperta in pochissimi anni di rovi e di boscaglia che ha soffocato gli alberi da frutto.”
Un mito di fondazione
Rodda possiede un “mito di fondazione” che spiega la sua caratteristica di paese aperto, sorridente, bello. Narra la leggenda che Gesù e San Pietro, messisi in viaggio come pellegrini, furono ignorati quando chiesero ospitalità a San Pietro e a Ponteacco, mentre a Rodda vennero accolti con un tale calore da far dire a Gesù che a Rodda non sarebbero mai mancati né i fiori né la frutta né l’allegria.
Ci sono speranze per il futuro, Damiano? “ Io sono fermamente convinto che sul mercato ci sarebbe spazio per una o due piccole aziende di frutticoltori qui a Rodda. Si tratterebbe di fare una produzione di grande qualità che per i primi cinque anni avrebbe bisogno di un sostegno economico ma poi penso che si manterrebbe da sola. L’importante sarebbe accorpare dei terreni sufficientemente grandi e non tutti spezzettati, ma io penso che di fronte a un progetto serio e di lunga durata questa sarebbe una difficoltà superabile.” Damiano ha lavorato per 19 anni al comune di Pulfero ed è anche stato assessore per 10 anni, mi racconta che quando non riesce a dormire passa in rassegna mentalmente tutti gli abitanti del comune, casa per casa… sono 1118 persone, e in particolare “17 vedovi e 174 vedove”. A Rodda oggi, su 97 abitanti, non ci sono bambini, è vero, ma ci sono tanti giovani e adulti, e solo 20 persone hanno più di 60 anni.
Dove sono emigrati gli abitanti di Rodda? “300 compaesani vivono oggi in Canadà, distribuiti tra Toronto, Ottawa e Porriver, sulla costa occidentale, al confine con l’Alaska. Tutti gli emigranti si sono portati le barbatelle con sé, cosicché ci sono più pesche di Rodda in giro per il mondo che qui. Qui si è persa la radice ma da un’altra parte il cuore sta crescendo.”
©Antonietta Spizzo per “Il Nuovo FVG” 2006.