Ilo Casali di Pieria, in val Pesarina, alleva ancora le mucche di una vecchia razza dal muso macchiettato di bianco e marrone, robuste e adatte all’alpeggio.
E’ appena sceso dall’alpeggio con i suoi animali Ilo Casali di Pieria, in val Pesarina. Sono trent’anni consecutivi che ogni estate carica malga Ielma, salendo ai primi di giugno per tornare a valle alla fine di novembre.
La grande cucina, dove arde il fuoco nello spolert, è piena di voci allegre: la madre di Ilo e due giovani donne, Anna e Marina, sue nipoti, che accudiscono i loro bambini. Poi la porta si spalanca e sulla soglia compare l’alta e dinamica figura di Ilo, occhi azzurrissimi e una folta capigliatura candida che spunta da un cappellino rosso portato di sghimbescio.
Vacjutas piciulas
“Razze vecchie adesso non ce ne sono più, a son ladis a finî in nuja! – così esordisce Ilo – C’era una bella biodiversità, qui, una volta! Le mucche più diffuse in val Pesarina erano las rainas, di tre colori, bianche sulla schiena e con il muso tutto puntinato di bianco e marrone. La lista bianca sulla schiena, che è un carattere dominante, e la punta delle corna sempre nera da un lato fanno pensare alla razza Pinzgau, mentre le piccolissime macchie sul muso, che sembrano fatte con uno spruzzo, fanno pensare alle Pustertaler Sprinzen, ma quelle sono più scure, mentre le nostre sono un grum plui claras. Poi c’erano tre-quattro qualità di Bigie e moltissime codulis rossis, simili alle Pinzgau ma più piccole. Per codule intendo una mucca con la schiena e la coda bianca, mentre i fianchi sono pezzati di marrone rossiccio.”
In generale erano molto più piccole di quelle attuali, pesavano sui 4-5 quintali e producevano circa 8-10 kg di latte al giorno. Venivano alimentate esclusivamente a erba, in estate, e a fieno in inverno. Di mangime praticamente non gliene davano (no i devin di lecâ), eccetto un beverone subito dopo il parto (dopo fedât), con dentro erbe e un po’ di farina. “Chi aveva la possibilità gli dava patate (cartufulas) oppure bietole – dice Ilo – di latte ne facevano molto di meno di adesso ma era sano, perfetto, nol era sfuarzât di nisuna banda.”
Le grandi batoste
I grandi cambiamenti sono avvenuti alla fine degli anni 60 con il cosiddetto “risanamento dalla tubercolosi”, quando sono stati fatti controlli a tappeto in tutti gli allevamenti per stabilire se ci fossero animali malati.
“Quando dovevi abbattere un animale malato -continua Ilo – poi lo dovevi sostituire con quello della razza “giusta”, quella stabilita dall’Ispettorato all’Agricoltura e dall’Associazione Allevatori. E’ stato un periodo terribile perché sono risultati positivi al test centinaia di animali, qualche volta stalle intere. E’ stata una grande bastonata per la Carnia anche perché molti allevatori erano anziani e di fronte alle difficoltà hanno mollato.
Pochi anni dopo con il terremoto è arrivata una nuova bastonata: anche le stalle sono state “trasferite” in pianura e dopo è ritornata in Carnia solo una “minimissima” parte degli animali originari. Hanno riportato qui animali differenti, e così le razze vecchie sono andate perse.”
Ma le prevaricazioni a danno degli allevatori in realtà erano cominciate ben prima, da quando cioè il fascismo, facendo un errore madornale, aveva imposto in tutta la Carnia la razza Bruna Alpina, multando e quasi perseguitando chi teneva nella sua stalla tori di razze non approvate.
Negli anni 60 la prevaricazione continuava, anche se forse in modo più sottile: l’allevatore veniva obbligato a comprare animali delle razze selezionate, e il contributo veniva concesso solo per questi. E negli anni 70 chi chiedeva un prestito per l’incremento della zootecnia era costretto ad accettare gli animali che gli venivano consegnati e non poteva sceglierli.
“Questa era la politica ufficiale – riprende Ilo – e tutti gli allevatori che non si adeguavano continuando a tenere animali differenti rappresentavano una vera spina nel fianco alle istituzioni. Ma anche per la Bruna Alpina di vecchio ceppo le cose andavano male, la campagna contro la tubercolosi l’aveva decimata, e allora era stato introdotta una razza americana, la Brown-Swiss, che aveva rovinato moltissimo gli animali esistenti che erano diventati sì più lattiferi ma erano senza forza e soccombevano facilmente alle malattie.
A questo punto c’è stata quasi una ribellione degli agricoltori, che verso il 74 hanno cominciato a importare dalla Svizzera la pezzata rossa, che è stata finalmente autorizzata nei primi anni Ottanta. Ma anche questi animali sono delicati, producono bene per due o tre anni ma poi bisogna cominciare a dargli medicine, si ammalano, mentre le vecchie vacche potevano vivere anche 20 anni, magari producevano meno latte ma erano molto resistenti. La pezzata rossa è un animale che vale un po’ di più perché i vitelli sono più grandi e a venderli tu cjapis un franc di plui, e inoltre sono animali più tranquilli, però hanno le unghie molto fragili e per questo non sono adatte all’alpeggio”.
Primula e le altre
Ilo possiede attualmente una quarantina di capi, di cui un buon numero sono rainas vecjas. “Le ho sempre tenute e voglio tenerle, mi dispiacerebbe che andassero perdute del tutto. Queste mucche le allevo per passione, ma anche perché sono molto più forti, più sane e più longeve, e non hanno mai niente, no an mai viodut medisinis, a son stalis là ju pal Friûl che han infermerias come ta l’ospedâl!”
Se qualche raina è sopravvissuta lo si deve a quegli allevatori che, nonostante i rischi che potevano correre, hanno allevato anche dei tori rainâts: “Bisognava stare attenti perché potevano anche mandarti i carabinieri. Si doveva andare di notte per far accoppiare gli animali!”
Andiamo a curiosare di persona nella stalla: oltre alle mucche da latte e a qualche delizioso vitellino c’è un toro immenso di razza pezzata rossa, e una decina di manzette nate nel 2006. Un paio sono davvero ben “rainate”: la più bella si chiama Primula, ma non sfigurano nemmeno Mandula, Romana, Luiara, Derna e Bimba.
Ci rendiamo conto di quanto impegno richieda la conduzione della sua azienda. “D’inverno – racconta Ilo – mi aiutano Marina, Anna e mio padre, che d’estate si occupa anche della fienagione insieme a mia sorella e a mio cognato. In malga invece mi aiutano mia madre e un ragazzo (un canai). Le mie mucche mangiano solo erba o fieno. Per fare un buon formaggio, la cosa più importante è che il latte sia sano.”
Al pascolo con l’orologio
Ilo – cosa che quasi nessun malgaro fa più al giorno d’oggi – conduce le mucche al pascolo due volte al giorno, alla mattina e alla sera. Così ci racconta la sua giornata: “Mi alzo prima dell’alba, alle tre e mezza, e vado subito a mungere e poi comincio a fare il formaggio (çuç), prima di portare le mucche al pascolo. Mungo sempre a mano e ci impiego circa tre ore: devi pensare che quest’anno avevo 57 vacche e 140 capre, di cui un centinaio da mungere. Il formaggio si fa solo alla mattina, prima il çuç e poi la scueta, lavoro ogni giorno 4-5 quintali di latte. Dopo la mungitura del pomeriggio riporto gli animali fino a quando viene buio. Ma non li lascio mai al pascolo da soli, senza controllo: all’inizio della stagione per esempio, quando l’erba è più forte, bisogna andare al pascolo con l’orologio, venti minuti nell’erba fresca sono più che sufficienti, altrimenti le mucche prendono la diarrea e il latte “si scalda” e diventa quasi impossibile fare un buon formaggio.”
E poi la presenza del pastore è indispensabile per impedire che le mucche calpestino tutta l’erba del pascolo: “La mucca deve mangiare ogni giorno un po’ di erba intera e non balinada, solo così il latte viene buono! Ma se la lasci sola dopo un mese che sei lassù non trovi nemmeno un angolino di erba intatta”.
Siamo tornati in casa e sulla tavola è comparso un piatto di formaggio. “Assaggiate, su, un po’ del nostro çuç! – dice Nives, la madre di Ilo. Ilo è un malgaro pluripremiato. Lui non ne parla volentieri e anzi si schermisce, però in tutti questi anni ha vinto numerosissimi premi per formaggi e ricotta alla Mostra del formaggio di malga di Enemonzo, e anche il 2006 lo ha visto piazzato al primo posto.
Formaggio biologico
“Certo ci sono i segreti del mestiere, c’è la pratica di tanti anni, però il çuç non lo fa il casaro (il fedâr), ma lo fanno in gran parte quelli che portano le mucche al pascolo. Il formaggio prende il sapore delle erbe che le mucche mangiano, e in base a questo io so già che tipo di formaggio verrà, e quanto devo scaldare il latte. A me non serve più il termometro, sento la temperatura sulla pelle. Il casaro non può fare miracoli se non gli portano un latte buono. Io comunque non uso alcun fermento.”
La mia ignoranza in materia è enorme, che fermenti mai si mettono nel formaggio, chiedo. “Se le mucche vengono alimentate con l’insilato – risponde Ilo – il çuç no si rive ad ore a domâlu: magari all’inizio della stagione la forma è bella, ma poi si gonfia o si spacca. Così va a finire che i caseifici pastorizzano il latte e poi ci aggiungono dei fermenti per poterlo lavorare. Adesso tutto viene sforzato, sforzato, si va contro natura, anche il latte viene alterato, diventa una roba morta, al è come mesedâ aga, il çuç nol lavora plui.”
Ilo d’estate vende il suo formaggio direttamente in malga, mentre in inverno il latte viene portato al caseificio Val Degano: “Oggi in val Pesarina siamo rimasti solo in quattro a fare gli allevatori, e due di questi hanno aziende piccolissime. Non avrei mai pensato che l’agricoltura sarebbe finita così male, negli ultimi anni è stata buttata nelle immondizie. Per fortuna posso stare in Ielma, sto bene lassù e cerco di starci il più a lungo possibile.”
©Antonietta Spizzo 2006 per “IL NUOVO”