Andiamo nel piccolo paese della val Pesarina per scoprire nomi e segreti dei famosi fagioli che erano un’importante fonte di reddito e che ancora vengono coltivati con passione.
Militòns, Lauròns, Cesarins, Setembrins, Fasàns, dal Ont, da Cinise, dal Voglùt, Asìns..: sono i fagioli della Carnia, uno sconfinato patrimonio di biodiversità, con tanti nomi quante sono forse le famiglie che li coltivavano. Per raccapezzarsi tra queste e centinaia di altre varietà autoctone di fagioli sono in viaggio verso Tolmezzo dove incontro il mio cicerone, Nereo Peresson, che è un vero esperto della materia. Nereo infatti fa parte dell’Ufficio zonale di Tolmezzo della Confederazione Italiana Agricoltori, che è il capofila del progetto Interreg IIIA “CONSER-VA” per la valorizzazione e la conservazione delle piante autoctone e spontanee della zona transfrontaliera. Mentre saliamo verso la val Pesarina vengo a conoscenza dei dettagli del progetto.
L’esperienza delle piante
Nereo racconta: “ Il nostro progetto è iniziato nell’autunno del 2000 e ha già raccolto più di 100 varietà autoctone di fagioli e tegoline. E’ vero che negli anni 80 il CRSA (Centro ricerca e sperimentazione per l’agricoltura) già aveva raccolto molti esemplari di mais, fagioli e mele, ma all’epoca si pensava di utilizzarli come reperti genetici che dovevano servire per creare varietà nuove con caratteristiche interessanti, per esempio la resistenza a certe malattie. Ma di solito le sementi raccolte finiscono in un congelatore nella banca regionale del germoplasma, e che cosa succede? Ogni tanto si fa una prova di germinabilità, si paga qualcuno perché semini e poi finisce tutto lì, e per ogni anno che resta nel congelatore la pianta perde un anno di esperienza, si arresta quell’evoluzione che fa sì che si adatti di continuo alle variazioni dell’ambiente.
Il nostro progetto è completamente diverso perché, oltre a salvare la memoria genetica con coltivazioni dimostrative e campi catalogo di piante madri, noi vogliamo creare anche un interesse di tipo economico, senza il quale la salvaguardia diventa un peso. Negli ultimi anni si è creata una certa nicchia di mercato che va a cercare il prodotto DOC vero, i sapori dimenticati della gastronomia tipica; per questo vogliamo coinvolgere le comunità locali nella conservazione delle specie e gli agriturismi e i ristoranti nel preparare piatti tradizionali usando questi prodotti. I nostri partner istituzionali sono l’Università di Udine, i Comuni di Prato Carnico e Ampezzo e la Kammer für Land- und Forstwirtschaft della Carinzia, ma ben poco si sarebbe realizzato concretamente senza l’impegno e la disponibilità di Monica Peresson di Piano d’Arta e Eliana Solari di Pesariis, titolari delle omonime Aziende agricole.”
Scoprire Pradumbli
Parlando parlando siamo arrivati a Prato Carnico, ma la nostra vera meta è proprio dirimpetto a noi: la piccola frazione di Pradumbli, affascinante già nel nome, unico paese della val Pesarina ad essere situato a bacìo, cioè sul versante della valle esposto a nord. Pradumbli era un antico castello (Castel Dumbli), adesso ci vivono 50 persone, è la frazione che vanta oggi il maggior numero di giovani in proporzione al numero degli abitanti.
Le belle case carniche di legno e pietra dall’architettura armoniosa si stringono una accanto all’altra, vi sono antichi sottoportici ad arco ed eleganti portali scolpiti e fiori dappertutto. Oltre il nucleo abitato si estende ampia la taviele, ordinatamente coltivata a campi e orti. Saliamo alla casa più alta, dove ci aspettano Egle Leita, classe ’29, e Marianna Rupil, classe ’39, per mostrarci i “loro” fagioli.
Anche Nereo Peresson è interessato ad avere più notizie possibile, sperando di trovare un’ulteriore varietà da aggiungere a quelle già campionate. E’ una bellissima giornata di sole, la Creta Forata si staglia bianca contro il cielo. Egle e Marianna portano i fagioli in cartoccetti, sacchettini di tela bianca e in un pignattino. Mucchietto dopo mucchietto li dispongono su un tavolino, illustrandone le caratteristiche nella parlata carnica della val Pesarina, ricca di termini tutti particolari.
La sfilata dei fagioli
“ I borlots – dice Egle- una volta erano i più richiesti e i più commerciabili, non venivano usati in famiglia ma solo venduti, e non è che siano i più buoni, perché hanno la scorza dura. Sono migliori i setembrins o borlotins, fagioli piccoli, abbastanza precoci, dalla scorza fine e che non si spappolano, a son fasûi par cjase. Ecco poi il Lamon, portato da Asiago; gli asins, piccoletti; i laurons, sempre esistiti; sono un po’ più piccoli dei borlotti e probabilmente i loro “predecessori”, sono stati molto diffusi dopo la guerra, ma adesso ce ne sono pochi; erano molto commerciabili e si vendeva bene ju pal Friûl; però la minestra veniva più slavata perché el lauron nol uaiava, cioè non si stemperava nella minestra.”
Ma i fagioli più antichi sono di sicuro chei dal Voglùt, quelli con l’occhietto. Ci sono quelli marroncini e quelli color cenere detti da Cinise ; sono quelli che localmente si usavano di più e anche i migliori, perché la loro scorza non è dura come quella del borlotto e restano consistenti dopo la cottura. Poi ci sono chei da Liscive: sono bianchi, più precoci, con una macchietta più piccola. Per finire c’è la fasola: fagioli grandi bianchi e rossi adatti da fare in padella.
A questo punto arriva il marito di Egle, Mino, 83 anni, a bordo di un’Ape rombante, il SUV della Carnia, e si inserisce anche lui nella vivace discussione a più voci sui vari tipi di fagioli, che entusiasma e coinvolge tutti i presenti. Per Nereo è importante sapere se sono almeno 25-30 anni che queste varietà vengono coltivate in loco e Egle si mette a ridere: “Trenta! Ma saranno almeno 50! sono 55 anni che sono venuta a stare qui e ne ho quasi ottanta!”
Biei bârs di fasûi
L’onore della rassegna tocca ora alle tegoline, las uainas: si comincia con chês dal papa, tenere, con buccia gialla e il fagiolo nero; poi quelle con il fagiolo bianco, tenere; la cento per uno, tardiva, molto polposa e senza filo, di grandi dimensioni, non sempre rende bene. E poi una varietà a doppio uso, chel asin, che ha il fagiolo piccolo come chel dal Voglùt e che si usava a piacere come fagiolo oppure come uaine quando il baccello, il cosul, è bello morbido.
Quanto alla semina, Egle e Marianna sono concordi sul fatto che non bisogna lesinare nella quantità, perché se viene un’ondata di freddo si rischia di perdere tutto: “ meteit biei bârs di fasûi, barons grands, mancul di 12-13 no stâ a meti mai.”
La selezione dei fagioli per la semina era attentissima, fatta sì in base alle esigenze e ai gusti personali ma soprattutto in base alle esigenze climatiche dei singoli appezzamenti, perché campi distanti uno dall’altro anche solo 100 metri possono avere condizioni molto diverse di esposizione al sole o al vento.
Era normale che la gente si scambiasse le sementi tra i vari paesi della valle, ma per riuscire bene il percorso doveva essere rigorosamente dall’alto verso il basso, cioè dal posto più freddo a quello meno freddo.
La semina va scaglionata in giugno da S.Antonio a S.Pietro per avere la produzione in un arco di tempo più lungo. Tradizionalmente i fagioli venivano sempre seminati accanto alle patate, e la raccolta avviene in ottobre:al ûl la lune di setembar par madurisi.
Con i soldi ricavati dalla vendita dei fagioli le donne si compravano tradizionalmente i grimâi (grembiuli) e i bleons (lenzuola); i commercianti friulani ritiravano i fagioli, che venivano scambiati tant par tant, cioè alla pari, 1 kg di fagioli per un kg di frumento o di altri prodotti. Marianna e Egle ricordano anche che si andava a barattare a Collina e a Sauris (dove i fagioli non crescevano ), rispettivamente con cavoli cappucci e formadi salât.
La mignestre dai siôrs
I fagioli si conservavano a lungo senza deteriorarsi: se viene il baròli (cioè il bau,cioè il verme) è perché sono in un luogo troppo caldo, cosa che una volta non succedeva, perché i fagioli venivano tenuti esclusivamente sul fienile (tal stâli), con temperatura quasi sempre sottozero, un congelatore naturale, dunque. Tutti i presenti si accalorano particolarmente nel discutere dei pendalòns, uno dei piatti forti della valle: si tratta di tegoline bianche larghe e patate bollite assieme e poi schiacciate ricavandone una specie di purè che viene insaporito con un trito di cipolla, aglio, pancetta ed erbe aromatiche rosolate in olio e burro.
Con dispiacere lasciamo la vivace compagnia di Pradumbli perché abbiamo un ultimo appuntamento da Eliana Solari a Pesariis, l’ultimo paese della val Pesarina: a parlarci di fagioli è Dalia Strazzaboschi, che alla tenera età di 86 anni mostra una grinta e uno spirito davvero invidiabili, distribuendo battute pungenti e frasi ironiche con un sorriso ora ingenuo ora complice. “Io ho un fagiolo che non conoscete, uno davvero speciale, e che fa una minestra come chê dai siôrs… se aspettate vado a prendervelo!” E Dalia torna con un sacchettino minuscolo che contiene pochi preziosi fagioli che davvero nessuno dei presenti aveva mai visto: non hanno un nome, sono rotondi, bianco panna con una minuscola macchiettina, come un occhietto marrone ammiccante. Nereo può ben censirlo come coltivato in loco da almeno trent’anni visto che era il fagiolo preferito dal padre di Dalia. Ma da dove viene? “Me li ha dati una di Pradumbli.” Ma non si era detto che le sementi non devono mai risalire le valli? Ma Pradumbli fa eccezione a questa regola perché, unico paese in ombrena, le poteva “esportare” dappertutto, anche più in alto.
©Antonietta Spizzo per “IL NUOVO” 2006.