Ripropongo questo mio vecchi articolo in occasione dell’uscita del documentario su Ulderica da Pozzo “Frute di mont” per la regia di Stefano Giacomuzzi (2023).
©Antonietta Spizzo 2005 per “IL NUOVO” – Tutte le foto sono state concesse dall’autrice per questo sito.
Incontro con Ulderica Da Pozzo: 25 anni di fotografie, dai primi scatti con la Rolleiflex dello zio all’ultimo libro, “Malghe e malgari”.
Riesco a rosicchiare un po’ di tempo a Ulderica Da Pozzo, indaffaratissima per l’uscita del suo nuovo libro.
Piccolina, i capelli neri corti, un modo di fare sicuro e determinato, combattivo, una risata squillante, una voce allegra che però ogni tanto si vela di tristezza, Ulderica mi concede un’intervista volante tra il tavolino di un bar e il suo studio che straripa di scatolette di diapositive,di cartelline colorate con i nomi di tutti gli angoli del Friuli, di carte geografiche e libri.
Ulderica, proprio nel 2005 festeggi il 25ennale della tua attività come fotografa professionista. Com’è che hai cominciato a fotografare? Fin da piccola provavo attrazione per le fotografie, te le ricordi quelle scatole di latta in cui una volta si conservavano le foto di famiglia? Bè, io le mie le avrò guardate mille volte, e addirittura quando andavamo da qualcuno gli chiedevo di mostrarmi “la scatola”. Da ragazzina,a Ravascletto, fotografavo con una macchinetta instamatic, con quali risultati puoi solo immaginare. Però un ruolo rilevante nella mia vita lo ha avuto lo zio Toni, che era il postino e il fotografo del paese, un compito importante in una piccola comunità, che ne testimonia anche una certa ricchezza culturale.
Che ricordo hai di lui? Aveva la camera oscura tra la casa e lo “stali”, e noi ragazzini che andavamo lì su e giù, mi ricordo l’odore particolare degli acidi per lo sviluppo, i negativi appesi ad asciugare. Lui non mi ha insegnato a fotografare perché io ero ancora troppo piccola, e lui purtroppo è morto giovane. Sono riuscita a salvare gran parte del suo archivio fotografico e una cassetta con tutte le foto tessera, che costituiscono un documento prezioso di quei tempi. Sua moglie, quando io ho compiuto 18 anni, nel 1975, mi ha regalato la sua Rolleiflex e questo ha dato una svolta alla mia vita.
Quand’è che la tua passione è diventata anche la tua professione? Ho cominciato a lavorare a 16 anni, facevo l’impiegata da un geometra, e poi ho lavorato diversi anni come commessa alla Coopca. Nel frattempo ho studiato fotografia, ho seguito molti corsi a Bologna, a Venezia,con Oliviero Toscani e Franco Fontana e altri ancora, sono passata dal lavoro a tempo pieno al part-time e finalmente nel 1980 ho preso la grande decisione: mi sono licenziata, ho fatto un bel po’ di debiti e ho aperto un negozio di fotografa tutto mio, a Ravascletto.
Hai rischiato. E’ stato un vero azzardo. All’epoca non esistevano sostegni per l’imprenditoria giovanile come adesso. Però ho potuto sempre contare sull’appoggio morale della mia famiglia che mi ha incoraggiato incondizionatamente. All’inizio è stata dura, ho fatto un po’ di tutto: matrimoni, cresime, foto di gruppo di sciatori inglesi sullo Zoncolan. Ma io volevo tener duro e comunque nei tempi morti – che erano tanti – sono sempre andata in giro a fare le foto che mi piacevano. E’ stata la mia fortuna. Se avessi cominciato con l’idea di far soldi le cose non sarebbero andate così. Anche la prima serie di cartoline della Carnia, nel 1984, le ho fatte stampare a mie spese. Ho cominciato a costruirmi un archivio personale di foto, della Carnia prima, e di tutta la regione poi, e alla fine questa si è rivelata una scelta vincente.
Hai mai avuto difficoltà come donna? No, io personalmente no, anche se so che ci sono poche fotografe professioniste da noi. Penso che essere donna è semmai un vantaggio, perché mi pare che con una sensibilità femminile sia più facile entrare in sintonia con le persone che fotografi.
Sei soddisfatta allora di questi tuoi 25 anni di lavoro?Sì, perché faccio le cose che mi piace fare.
Il tuo nuovo libro che viene presentato come una ricerca sistematica sul mondo delle malghe in Friuli. E’ vero che sono rappresentate tutte le malghe? Sì, ci sono tutte le malghe monticate della Carnia, mentre mancano quelle abbandonate, ma poi c’è molto di più, perché ci sono anche tantissime interviste con piccoli e piccolissimi allevatori di “fondovalle”, che purtroppo nell’edizione definitiva sono state un po’ sacrificate a favore delle zone “alte”.
Mi pare di capire che è stato veramente difficile, per non dire addirittura doloroso, operare una selezione tra il tantissimo materiale che avevi raccolto. Possiamo dire che quanto presenti qui è solo una ristrettissima scelta? Sì, a monte ci sono centinaia di ore di interviste e videoregistrazioni, e migliaia di scatti. Questo libro non è partito come un’indagine, ma lo è diventato. Questo che vedi è solo una parte piccola, piccolissima di quanto ho raccolto in quattro anni di lavoro. Comunque è importante che il materiale da qualche parte ci sia. Alcuni di quelli che vedi nel libro sono già morti, come Battista Petris (fotografato a malga Valuta con il suo cane, pag.35). Al è un mont che al sbrissa via.E’ una grande fortuna per me aver potuto conoscere e parlare con così tante persone che spesso si sono aperte con confidenze inaspettate, anche del tutto private, cose che nemmeno i loro familiari conoscevano, forse perché non glielo avevano nemmeno mai chiesto.
Quale è il sentimento che ti lega alle persone e alle cose che hai fotografato per questo libro?Mi sento in sintonia con loro, con un mondo in cui sono dentro anch’io. Non li guardo da fuori. E poi è come se tornassi bambina. E’ anche una forma di orgoglio e di resistenza contro un mondo che viene sempre più appiattito, anche in Carnia, purtroppo. Per quel che riguarda le cose, ci sono oggetti di uso, nelle malghe, che nella loro semplicità hanno una forma perfetta, sono delle opere d’arte. Guarda questo “tapon da cjalderia” che ho fotografato a malga Malins. Guarda che senso della misura, delle proporzioni che ha… e che noi abbiamo perduto. E certo vi è in me malinconia, e struggimento, quando sento che questo mondo non ha più vitalità, che sparisce, che i malgari più anziani muoiono e che quelli giovani non riescono a tener duro e a continuare. La fadia copa duç.Mi domando come sarà questo mondo tra 30 anni. A Forni di Sotto negli anni 60 c’erano 1400 mucche, adesso ce ne sono… due e due quattro. I numeri sono numeri.
E’ un mondo destinato a scomparire? E’ un mondo in cui ho trovato tanta difficoltà ad andare avanti e tanta passione per andare avanti. Quelli che sono restati lo fanno perchè c’è la passione, resistono in nome di un sentimento, come scrive anche Giorgio Ferigo nel suo saggio.
Una curiosità tecnica. Ho notato che nei tuoi ultimi libri, a partire da “Il fum e l’aga”, le fotografie sono stampate “al vivo”, cioè senza il bordo bianco che generalmente le incornicia. E in “Malghe e malgari” anche il formato quadrato, più piccolo del solito e inconsueto per un libro fotografico. E’ una tua precisa scelta? Sì, questo formato mi piace, mi sembra più intimo, più compatto, come un piccolo scrigno che racchiude un mondo intero.
IL LIBRO:
Credo che “passione” sia la parola chiave per capire Ulderica e il suo raccontare per immagini la Carnia. In particolare “Malghe e malgari” non è solo una ricerca esaustiva sulle malghe e l’allevamento in Carnia, ma è soprattutto un omaggio appassionato a un mondo “ai margini e in alto” che è anche in parte il mondo dell’infanzia dell’autrice. Per capire appieno lo spirito che ha animato Ulderica e il suo rapporto con i luoghi bisogna leggere i due brevi testi rivelatori, “Incontri” e “Passaggi”, scritti di sua mano e inseriti all’interno del libro in modo defilato, quasi nascosto con pudore. Con grande poesia e commozione trattenuta Ulderica ripercorre alcuni momenti della sua infanzia: il nonno che falcia, la nonna che munge tal stali la mucca Tabarin, il sapore del latte e quello delle ciliege dei Plans, e ci confessa di essere partita da questi ricordi e dalle malghe sopra Ravascletto per fare questo viaggio durato tre estati. Dalle foto traspare il conflitto tra nostalgia, malinconia e consapevolezza che il tempo non si ferma, ma anche il dubbio che forse le cose potevano andare diversamente: che questo mondo sia stato sacrificato al progresso, che la sua non sia una morte naturale ma in una certa misura una morte violenta.
“Malghe e malgari”(Forum 2004, Euro 35), è una ricerca esaustiva sul mondo delle malghe e dell’allevamento in Carnia. Il percorso si snoda attraverso le magnifiche foto in bianco nero e a colori di Ulderica da Pozzo, decine di interviste significative e una serie di saggi e interventi di Ulderica Da Pozzo, Furio Bianco (In Alpe, una questione storiografica aperta), Cristina Cescutti (Donne di mont), Giorgio Ferigo (Mucche, uomini, erba); Gian Paolo Gri (Ai margini e in alto e Altre presenze), Mauro Pascolini (Cjamà la mont: situazione attuale e prospettive dell’alpeggio nella montagna friulana) Lucia Piani (Le nuove economie:dall’allevamento al turismo).
Chiudo con le parole di Ulderica: “Un lavoro lo fai per tanti motivi. Forse rincorri solo una sera magica della tua infanzia (…)Così sono partita dalle mie malghe, quelle sopra la testa, sono salita e scesa, ho incrociato visi noti della mia infanzia e visi e volti nuovi. (…) Quello che c’era da dire lo hanno già detto loro nelle ore di interviste, di racconti e di storie, di nostalgie speranze amarezze fatiche, ironie, e poche parole inutili. Grazie a voi tutti.”