La val Aupa mi ha sempre affascinato, come se i suoi abitanti, schivi ed enigmatici, concentrassero l’essenzialità del genius loci che a me – abitante della pianura – sfuggiva.Solo poco tempo fa la lettura dell’illuminante libro di Franco La Cecla “Mente locale” mi ha chiarito con acute considerazioni come le persone di un posto si rapportino a quel posto stesso, come l’abitare sia una conversazione ininterrotta tra la nostra presenza e quella dei luoghi. E il poeta americano Wallace Stevens ci ricorda che “l‘anima è composta dal mondo esterno” e che “ci sono abitanti di una valle che sono quella valle”.
Recentemente ho avuto la fortuna di intervistare Elena Not e Corrado Druidi, una coppia di Dordolla che conosce a fondo i misconosciuti tesori culturali, vegetali e culinari della Val Aupa, e che ha acconsentito a condividerli con me.
Questa mia rapida carrellata assume un significato quasi antropologico, perché mi fa capire come la gente della valle dovesse avere necessariamente, per sopravvivere, una conoscenza profonda della natura e del territorio. Elena Not, classe 1954, mi racconta di piatti tradizionali e di erbe e frutti della Val Aupa, coltivati negli orti o cresciuti spontanei, chiamandoli tutti con il loro melodioso nome friulano nella variante locale.Elena, che a sua volta ha appreso molte cose da sua madre Carmela, è nativa della piccola frazione di Grauzaria, ma si è sposata a Dordolla dove ormai vive da più di trent’ anni.
La misteriosa miole
“Comincerò dalle erbe – mi dice Elena – una volta non c’erano medicine e ci si curava con erbe, le conoscevamo fin da piccoli. Gli orti erano curatissimi e si coltivava di tutto, anche a Grauzaria che è in una posizione meno soleggiata di Dordolla. Le erbe dell’orto servivano sia per insaporire i cibi che per fare tisane: tutti avevano almeno camomilla, finocchio, ruta, melissa, menta, maggiorana. Quest’ultima, la miserane, la si metteva soprattutto nelle carni di coniglio. E poi c’è la miole, che ha un sapore un grum particolâr, infatti la tenevano nell’orto solo quelli a cui piaceva.”
Di questa pianta un po’ misteriosa, il cui nome non è citato nemmeno sul vocabolario Pirona, sono riuscita con fatica a risalire al nome latino: Tanacetum vulgare, un’erbacea perenne dal lungo stelo, con le foglie frastagliate e le infiorescenze a bottoncino giallo. Elena precisa: “In effetti non la conoscono in molti. A Grauzaria ce l’avevano tutti, a Dordolla invece solo due famiglie, sono stata io praticamente a diffonderla, perché mi piaceva.
Con la miole in primavera si fanno frittate con le foglie fresche tagliate fini fini, e nessun’altra erba. E’ depurativa dell’intestino e in grandi dosi è tossica, veniva usata anche contro i vermi. E, a proposito, va fatta rosolare nel burro, l’olio toglie il sapore dell’erba, anzi una volta adoperavano l’ont .”
Ont e cuincîr
Si apre inaspettatamente il capitolo dell’ont che secondo Elena dava a certi cibi un sapore veramente particolare. Veniva fatto con il burro, facendolo bollire a fuoco lentissimo finché – dopo una prima schiumatura – il liquido prendeva un bel colore dorato. Era pronto quando si formavano lis scoladuris, dei grumetti color marrone, con sopra una schiuma chiara e soffice. Allora veniva travasato nella piere da l’ont, un vaso di pietra chiuso con un coperchio di legno.
Mi stupisco che Elena ne conosca il procedimento a menadito. “Ah, l’ho visto fare tante volte, mia suocera lo adoperava sempre, ma da quando esistono i frigoriferi penso che non lo faccia più nessuno, e comunque con il burro di adesso non viene buono. Il segreto stava nel non farlo bollire forte; veniva duro come lo strutto e si conservava per mesi e mesi. E lis scoladuris non venivano buttate, ma si mangiavano con la polenta.” Il ricordo dell’ont fa venire in mente a Elena un’altro cibo particolare e dimenticato, il cuincîr.
“Il ciuncîr al è une roibe particolarissime. Si faceva nelle famiglie con ricotta fresca, sale, pepe e brume (panna), e come lo jogurt veniva lasciato a fermentare vicino allo spolert. Ogni 2-3 giorni andava mescolato. Nei primi giorni si aggiungeva anche un po’ di panna fresca finché assumeva una consistenza morbida come una crema spalmabile; dopo non si aggiungeva più niente. Aveva un sapore un po’ piccante, molto particolare, e veniva mangiato con la polenta arrostita o spalmato sul pane o con le patate lesse. Era un cibo pregiato, tenuto da conto per Natale. Oggi forse lo puoi trovare solo dal Bill, nella sua malga di Riu Sec in val Pontebbana.
Altre squisitezze
Ormai Elena è lanciatissima: “Era ottimo anche il tocj di brume quando si aveva l’occasione di avere la panna, cosa rarissima nelle case perché la panna la tenevano per fare il burro. Facevano un po’ di frico usando formaggio stagionato, lo amalgamavano a pezzetti con la panna e lo mangiavano con la polenta. Qualcuno lo faceva anche con l’aceto e allora si chiamava tocj di asêt. Ma se vuoi sapere quale è la nostra minestra tipica ti dirò che è la mignestre di brovedâr , fatta con le rape raccolte in novembre dopo il primo gelo. Va lasciato un toc di viscje, un pezzo della foglia, quella più tenera.
La preparazione del brovedâr è lunga, ci vogliono almeno due mesi: si fanno bollire le rape a pezzetti per qualche minuto, poi le si fa asciugare e le si mette nella brente, un apposito contenitore di legno con coperchio. Si coprono con vinaccia, acqua e foglie di verza e sul coperchio viene messo un grande sasso. Resta così fino a gennaio. Poi le rape vengono macinate, risciacquate e messe a bollire per 3-4 ore con aglio e fagioli. Alla fine si mette anche un ues di purcit o il muset, sale, pepe e una foglia di salvia. Mia mamma Carmela la fa ancora ogni anno, ed è anche il piatto forte dell’osteria di Dordolla.”
Cento erbe
Tutte le altre minestre e minestroni si fanno con le erbe disponibili sul momento. Secondo Elena è particolarmente buono il farinuç, che si trova in grande abbondanza in montagna alla fine di giugno.
E’ una specie di spinacio dal sapore più accentuato, con cui si possono fare gnocchi, minestre, risotti e ripieni per crespelle. “E poi – continua Elena – mi vengono in mente sparc salvadi (asparago selvatico), frIgnacule (parietaria), vorele di gneur (licnide bianca), pan e vin (acetosella), burale (carlina) che si può mangiare cruda, oppure cotta come i carciofi.
Poi ci sono le piante medicinali: plantagn (piantaggine), contro le botte e in decotto contro la tosse; arniche (arnica), che si metteva nell’olio di oliva per fare massaggi contro i dolori articolari; enziane (genziana), conosciutissima da tutti e abbondante sulle nostre montagne, che si mette nella grappa come digestivo o nel vino come aperitivo. E poi c’è la resina del larice, l’ariàn,da usare come unguento o per fare fumenti contro bronchiti e raffreddori.”
Mi stupisco ancora una volta di come Elena conosca tutte queste piante e il loro utilizzo, e penso che le persone della sua generazione sono probabilmente le ultime per cui queste conoscenze non sono state acquisite sui libri ma rappresentano un sapere indissolubilmente legato alla vita pratica, addirittura alla sopravvivenza. La valle era uno spazio che apparteneva loro totalmente e di cui possedevano una dettagliata mappa mentale, con le “tane” delle erbe e dei frutti e il momento buono per raccoglierli.
“Basta che tu pensi – mi dice Elena – che una volta adulti e bambini stavano via tutto il giorno a fare fieno e nelle pause del lavoro raccoglievano quello che trovavano, ad esempio quella che noi chiamiamo palmonarie (Lichene d’Islanda) che serve per fare beveroni alle vacche che hanno appena partorito, e la jarbe-cole (Licopodio annotino), un’erba comunissima che raccolta in lunghi fasci serviva a foderare il coladôr (imbuto)del latte perché non passasse giù neanche un pelo di mucca!”
Frutti di bosco
Se passiamo ai frutti selvatici, vengono in mente subito mirtilli e lamponi, chiamati in Val Aupa rispettivamente ciargniculis e mujeis, e poi il sambuco (saudâr). “Puoi farci marmellate o sciroppi, oppure mettere a seccare qualche bel rametto di mirtillo con frutti e foglie e fare un buon tè. In tutte le case c’era lo sciroppo fatto con le bacche del sambuco, da bere con acqua calda nelle forme influenzali. Invece lo sciroppo fatto con i fiori è una moda degli ultimi trent’anni, forse perché prima comprare i limoni era un lusso. Con i fiori si possono fare anche frittelle o frittate. Io faccio il tè (o la marmellata, che però è molto laboriosa) con gli spicecûi, le bacche di rosa canina.
Ma queste sono piante che conoscono tutti. Da bambini andavamo a raccogliere le bacche del blancjâr (sorbo montano), del malesc (sorbo degli uccellatori) e della bisuvigne (pero corvino), un arbusto con bellissimi fiori bianchi a forma di stella e delle pere in miniatura come frutti. Di solito ce ne sono poche, ma sotto grappa sono buonissime, viene un liquore quasi come il rum.
E sai cosa sono i cjavroluts? In Carnia li chiamano riscjeluts, sono delle bacche rosse con foglie simili alla fragola, in italiano si chiama rovo erbaiolo….”
Piante da salvare
Di fronte a tanta grazia c’è di che perdere il filo, così sposto il discorso verso gli alberi da frutto, senza sapere di toccare un punto dolente. “In Val Aupa – dice Elena – c’erano tantissime piante di pero della varietà che noi chiamiamo “piruz di san Michel”, ma sono state trascurate e abbandonate e non producono più nulla. Con i frutti si fa un ottimo sidro e poi una prelibatezza che noi chiamiamo lis clozis. A proposito, qui la pera cotta si chiama cloze, termine che in Austria (Klotze) designa l’albero. Quando le pere sono mature, e hanno un colore nero ma sono ancora belle sode, si mettono in forno: ne esce tutto il succo e diventano come un frutto candito, si conservano facilmente anche per un anno! In Val Aupa si facevano i cjalzons dolci per Natale, e per il ripieno si usava ricotta fresca, clozis, cannella e, quando c’era, un po’ di cacao. Una volta lessati, si condivano con zucchero, cannella e naturalmente con l’ont!
©Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO” e 2009 per “Tiere furlane”