Due nomi, tre patrie, una vita sospesa: le vicende di Emilia/Milka Klemencic, il cui destino è stato segnato dai flussi e riflussi del confine.
“Se il mio destino è stato così, è perché giocavano con le frontiere”- sono le parole con cui mi accoglie Milka. Nella sua cucina il sole d’inverno disegna ghirigori brillando attraverso le tendine di pizzo lavorato al tombolo. “Mancano pochi giorni alla caduta del confine”– le dico. “Speriamo davvero che sia per sempre – sospira -Quello che ti dico adesso avevo promesso che non l’avrei mai raccontato e così è stato finora. Ma adesso le cose sono cambiate, e questa mia storia non può più danneggiare nessuno.”
Emilia/Milka Klemencic, classe 1933, è nata a Monte San Vito/Sentviska Gora, un altopiano a 22 km da Tolmino a circa 700 metri di quota, un posto molto bello.
“I miei si sono sposati nel 1925. Mio padre era un bravissimo calzolaio. Mia mamma era nata a Clabuzzaro, nelle Valli del Natisone. Tutti e due quindi parlavano sloveno. Papà era nato sotto l’ Austria e non è escluso che durante la prima guerra mondiale abbia combattuto, senza saperlo, contro i fratelli della mamma! Però dopo la guerra tutta la valle dell’Isonzo e la Carniola con Postumia e Idria sono passate all’Italia. Infatti sono stata battezzata con un nome italiano.”
Quindi il confine – che per secoli era passato sullo Judrio – slitta verso Est: dopo il trattato di Rapallo del 1920 il fascismo porta avanti senza perder tempo un suo inflessibile progetto per snazionalizzare i cosiddetti “alloglotti”. I cognomi sloveni vengono cambiati, e ai bambini si mettono solo nomi italiani. Nelle scuole è proibito parlare sloveno.
“Mia mamma faceva la cuoca nella caserma dei carabinieri lassù a Monte San Vito, e quando nel 1938 è rimasta incinta di mio fratello più piccolo, i miei nonni materni, che stavano appunto a Clabuzzaro/Brieg in Benecia, si sono offerti di tenermi con loro, per alleggerirle un po’ la fatica. E così a 5 anni mi hanno sballottato fino a Clabuzzaro dove sono rimasta, pensa, per tre anni interi. Per due mesi non ho fatto altro che piangere, e poi quando sono venuti a riprendermi non ne volevo sapere di andare con loro.”
Così Milka frequenta i primi anni delle elementari a Clabuzzaro, e torna a otto anni a Monte San Vito giusto in tempo per vivere i momenti più drammatici della guerra. Nel 1945 ha dodici anni. Un nuovo slittamento del confine, questa volta verso Ovest, la separerà brutalmente da una parte della sua famiglia.
Camminare da lepre
“Alla fine della guerra erano tempi veramente brutti, la guerra ci ha portato via tutto e siamo rimasti nella miseria. Sotto la Jugoslavia tutti i nomi italiani sono stati cambiati, il mio da Emilia è diventato Milka, che forse deriva da Ludmila, non so. Dal 45 al 47 la valle dell’Isonzo è stata zona A, sotto il controllo degli angloamericani, tanto è vero che per venirci dalla zona interna della Jugoslavia ci voleva un documento speciale. Dopo il confine è stato totalmente chiuso per qualche anno, infatti quando è morta mia nonna, a cui ero molto affezionata, era l’unica persona che mi avesse mai coccolato, non siamo potuti nemmeno andare al funerale. Invece a cominciare dal 1952 ci si poteva incontrare sul confine, al “blocco”. Noi andavamo a Solarie, da casa ci volevano 6 ore di cammino, ma non passeggiando, “camminando da lepre”!”
Sei e sei dodici, dodici ore di cammino quindi per poter vedere, solo vedere e nemmeno abbracciare, i propri parenti! Gli jugoslavi infatti potevano entrare nella terra di nessuno ma non andare oltre la sbarra italiana.
“Facevamo un piccolo “contrabbando”: burro, funghi secchi, sigarette e grappa da scambiare con riso, caffè e pasta. Tutto addosso… ma era poca roba, era per la sopravvivenza. Tutte cose incerte… come la vita! – sospira Milka – Io per vivere lavoravo a Lubiana in una famiglia. A casa non c’era un avvenire, c’era solo miseria. Erano anni in cui ero abbastanza disperata.”
I mesi più felici
La cugina Maria, che per tradizione di famiglia gestiva l’osteria di Clabuzzaro, invoglia allora la giovane Milka a passare un periodo da lei.
“Così nel 1957 ho fatto il passaporto e ho trascorso tre mesi a Clabuzzaro – continua Milka – sono stati i tre mesi più felici della mia vita, tutti mi volevano un bene dell’anima e soprattutto Maria, che ci teneva che io restassi a vivere lì ed era disposta a garantire per me. In realtà scaduti i tre mesi potevo anche restare ma temevo che mi rimandassero indietro e che sarei finita in prigione, così sono comunque tornata a casa in Jugoslavia.Il passaporto non me lo avrebbero più rinnovato e allora abbiamo cominciato a pensare a un ritorno clandestino in Italia. Maria non voleva assolutamente che passassi il confine da sola e mi ha procurato una persona pratica dei posti che mi aiutasse. Guarda, non l’ho mai detto a nessuno questo! Per tutti questi anni ho sempre detto che ero fuggita da sola, ma ora sento che ne posso finalmente parlare.”
Il giorno della fuga
Arriva finalmente il giorno destinato alla fuga. Milka rivive quelle ore: “Mia madre era andata dai vicini a sentire la radio che cantavano in resiano, a casa c’era solo mio padre. “Vado papà….”- gli ho detto. “Dove?” Mi chiede lui – Mi sono cadute le braccia, non ero preparata a questa domanda, gli ho detto che dovevo incontrarmi con Maria che mi portava il filo per lavorare a tombolo.
Sono andata a piedi fino a Tolmino (22 km, nota bene!), da lì ho preso la corriera fino a Caporetto e mi sono incontrata con una persona, uno sloveno, lui mi conosceva e si è fatto riconoscere. Abbiamo aspettato che si facesse buio, poi ci hanno portato in macchina fin quasi a Livek/Luico. Trattenevo il respiro… Era già buio, avevo tanta paura. Siamo scesi lungo un campo di patate e abbiamo camminato, camminato, non so che strada abbiamo fatto, siamo andati per sentieri e per rive, tutto in silenzio, non so dove e come siamo usciti, me lo sono chiesta in tutti questi anni…”
Come un criminale
Quando arrivano a Clabuzzaro Maria nasconde Milka in cantina nell’attesa che gli avventori dell’osteria se ne vadano a dormire. Avevano mandato dalla nonna anche Jole, una cuginetta piccola che era molto affezionata a Milka, perché se l’avesse vista sarebbe andata a raccontarlo per tutto il paese.
Ma il generale clima di sospetto creato dalla guerra fredda verso tutti coloro che abitavano nelle vicinanze del confine giocherà ora una parte importante nello sfortunato destino di Milka, che così racconta: “Sono stata nascosta per tre giorni, poi ho dovuto presentarmi in caserma dalla finanza a San Volfango e poi dalla polizia a Cividale. Eravamo tutti convinti che potessi rimanere lì a Clabuzzaro senza difficoltà visto che Maria garantiva per me, ma mi hanno detto che non era possibile perché eravamo troppo vicino al confine. Mi hanno portato prima in Questura a Udine, scortata da due poliziotti, e mi hanno fatto le foto e preso le impronte digitali come a un criminale. La sera stessa con un furgone cellulare mi hanno portato alla stazione ferroviaria e mi hanno scortato fino al campo profughi di Cremona dove sono rimasta 7 lunghi mesi. Io ero veramente disperata, quella notte, non tanto per la paura che mi rimandassero indietro ma per la sensazione nettissima di andare nell’ignoto.”
Una vita sospesa
Quello di Cremona era un campo di smistamento, da cui i profughi venivano avviati altrove a seconda che emigrassero in Australia o in America, dove era richiesta la manodopera. Questa sorte sarebbe toccata anche a Milka che era stata destinata al campo di Altamura.
“Bisognava passare la commissione! Ti chiedevano perché te ne eri andato e dovevi dire che lo facevi per non stare sotto il regime comunista, non perché cercavi lavoro e una vita migliore, altrimenti ti mandavano indietro. Io ho sempre detto che ero malvista perché sotto il fascismo mia mamma era la cuoca dei carabinieri.
Il campo era una caserma in via Villa Glori, con stanzoni da trenta persone. A novembre c’era tantissima gente, anche più di 200, molti venivano dalle nostre zone oppure dalla Croazia, famiglie intere. Di quel periodo la cosa che mi è rimasta più addosso è la sensazione di incertezza. Era una vita sospesa. Noi ci sentivamo di essere un peso, che nessuno ci doveva niente.”
Nozze al campo
Nel 1958 una serie di circostanze fortunate volgono finalmente a favore di Milka: fra tutte il fatto che Giuseppe, un giovanotto di Clabuzzaro, che Milka aveva conosciuto fin da piccola al paese e che allora lavorava come cameriere a Genova, veniva spesso a trovarla a Cremona. I due decidono di sposarsi e le nozze vengono celebrate nel campo profughi nel maggio del 1958. Anche l’atto di nascita originale – con il nome in italiano – viene fatto arrivare clandestinamente, tra mille difficoltà.
“Se non mi fossi sposata non avrei avuto alcun diritto per rimanere in Italia! – aggiunge Milka – Per tanti anni siamo vissuti in giro per l’Italia cambiando spesso lavoro quando a Giuseppe offrivano un posto migliore. Ricordo quei tempi: avevamo ognuno una valigia, e tutte e due vuote! Nel 1974 siamo tornati perché Giuseppe aveva il cuore qua. Ma è proprio il Friuli il posto in cui mi sono sentita più straniera…mi dicevano “siete sclafs”, ero abituata a salutare tutti e qui non mi rispondevano. Ma io non so che nome ha la mia patria. Sono nata sotto l’Italia, cresciuta in Jugoslavia e quando torno nella mia casa natale adesso vado in Slovenia. Però attraverso la frontiera sempre con il batticuore, mi è rimasta dentro la paura. Per me se un giorno il confine sarà aperto, sarò al settimo cielo. “
© Antonietta Spizzo dicembre 2007 per “IL NUOVO”
Dear Daniel, I wrote many years for a local newspaper “Il Nuovo Friuli” and I made a lot of interviews, I think it would be a pity if all this work would get lost, so I’m trying to publish it on my blog! Thank you a lot for your words!