Viljem Cerno, insegnante, intellettuale e poeta di Lusevera per tutta la vita ha difeso le tradizioni e la parlata slovena delle valli del Torre. Una scelta che gli è costata una vera e propria persecuzione.
“La più grande gioia che ho nell’animo è che il confine è morto, è finito” – con queste parole il professor Viljem/Guglielmo Cerno, di Lusevera/Brdo, insegnante, intellettuale e poeta delle valli del Torre, accoglie il mio invito a parlare del significato che ha avuto nella sua vita l’ormai ex confine. “Ora alziamo alta la parola/che troppo a lungo avevamo sterpi/in gola e chiusa la bocca” – dicono alcuni suoi versi del 2004. E durante il nostro lungo colloquio scoprirò che quest’uomo dall’aria così pacata ha subito durante tutta la sua vita una vera e propria persecuzione solo per la sua coraggiosa difesa dell’identità e della parlata slovena delle Valli.
Maria Eufrasia Micottis, la madre di Viljem, restò vedova molto giovane, con due figli piccoli; nel 1950 si presentò l’occasione – grazie al Fronte Democratico degli Sloveni – di farli studiare gratuitamente nelle scuole pubbliche con lingua di insegnamento slovena di Gorizia, vivendo come convittori alla Casa dello Studente. Circa una ventina di famiglie delle Valli del Torre approfittarono di questa possibilità. Il Messaggero Veneto imbastì una campagna denigratoria (23/12/1950) parlando di “tratta degli innocenti” in mano ai comunisti jugoslavi. I genitori dei ragazzi vennero convocati dal sindaco del loro paese e dal pretore di Tarcento e tacciati di essere “traditori della patria”. Dissero loro che avrebbero perso la pensione e che sarebbero anche stati scomunicati.
“Ma mia madre non si fece intimidire da nessuno- continua Cerno – Li affrontò chiaramente dicendo: ma voi, che futuro offrite a mio figlio? E poi la pressione in paese… Una volta alla fontana una donna le disse che piuttosto che mandare il figlio in quella scuola comunista si sarebbe strappata una manica della camicia e sarebbe andata a chiedere l’elemosina! A pensarci adesso mi sembra una novella di Ivan Cankar!”
Da notare che la mamma di Viljem, religiosissima, era andata a controllare di persona la scuola a Gorizia. Cerno continua, e abbassa significativamente la voce, ricordando le parole della madre: “Sono entrata nella tua scuola e ho visto due grandissime statue di santi nell’atrio. Dicevano che qui sono tutti comunisti ma possibile che nella scuola comunista ci siano due santi all’entrata?” Così mi disse, lo ricordo ancora. E poi: “Sei fortunato, mangi bene, studi e stai al caldo. Cosa vuoi di più? Continua così!”.
In questa vicenda ci sono dei lati paradossali, se consideriamo che gli insegnanti erano in gran parte sacerdoti fuoriusciti dalla Jugoslavia, anticomunisti viscerali. Cerno continua: “Infatti prima di Pasqua dovevamo fare ben una settimana di esercizi spirituali, alla fine dei quali ti veniva consegnato un santino. Chi non riceveva il santino aveva un punto di condotta in meno a scuola. Quando tornai a casa per le vacanze di Pasqua, il prete del mio paese mi confessò senza problemi, ma il giorno successivo in chiesa, durante la prima messa, mi “saltò” e non mi diede la comunione. E nella predica della seconda messa disse che “è meglio andare stolti in paradiso che istruiti all’inferno” ! Insomma, tutti i ragazzi che studiavano a Gorizia furono automaticamente scomunicati!”
Viljem studia per diventare maestro e nel 1959, vinto il concorso, gli viene offerto un posto di supplente a Tarcento. “Mi fu chiesto un “ certificato di frequenza della messa”, cosa per altro illegale e incostituzionale. Se non l’avessi presentato avevano in mente di dichiararmi “ambientalmente incompatibile” e avrei perso il posto.
Ma io che nonostante l’immeritata scomunica non avevo mai smesso di recarmi in chiesa, ottenni non solo il certificato, ma ebbi anche delle note di merito da parte del parroco. Seppi poi di essere stato considerato “titino, bolscevico, maestro rosso e montanaro”. Io a quell’epoca mi sentivo tranquillo, fraterno con tutti, senza pregiudizi, fiducioso nei principi scritti nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Dovevo però rendermi conto in breve sulla mia pelle di come stavano le cose.”
Ma per capire questo a fondo dobbiamo entrare nel clima degli anni della guerra fredda sul confine orientale. E’ Cerno stesso a descriverlo: “Qui nelle Valli del Torre, molto più che nelle valli del Natisone, si temeva l’invasione jugoslava. Il nostro territorio era completamente militarizzato, carabinieri militari e finanza ovunque, fortificazioni militari, gallerie per depositi di armi, un poligono di tiro e le famigerate “servitù militari” che impedivano anche le attività più semplici, come raccogliere le patate nel proprio campo o fare legna nel proprio bosco. Senza l’autorizzazione del comando militare di Padova anche riparare le case era considerato “modificazione dell’ambiente” rispetto alle carte topografiche militari! Qui nelle loro intenzioni doveva crearsi una specie di area desertificata, e in parte purtroppo ci sono riusciti.
Ma la cosa peggiore è che hanno creato e alimentato odio, perché i civili erano tutti tenuti sotto il controllo della Gladio, che se ne infischiava di creare possibilità di vita sul territorio, ma badava solo a ricevere voti, denaro e sostegni per sé. C’era un odio solido, e lo diffondevano, come lo diffondono ancor oggi. Ricevettero tutti gli appoggi e i posti di lavoro, e gli altri… gli altri dovettero andarsene! Anche quelli che avevano combattuto per la libertà di tutti e per la nostra democrazia. Negli anni Cinquanta abbiamo avuto il grande esodo, una dispersione totale della gente. I nostri se ne dovettero andare dopo aver combattuto sotto il fascismo in Albania, in Russia; io stesso ho degli zii che sono stati nei lager.”
In modo particolare era controllato chi, come Cerno, difendeva il dialetto e le usanze del posto, per l’aberrante equazione: parlante dialetto sloveno=filocomunista=filojugoslavo, ergo anti-italiano. “Per trovare un posto di lavoro qui, guai anche solo a difendere il dialetto, venivi accusato di essere ideologicamente inaffidabile. In tutti i paesi, da Resia fino alle valli del Natisone, tramite l’ONAIRC (Opera nazionale assistenza italiana per le regioni di confine) fu creata una scuola materna a tempo pieno, dove le maestre dovevano educare all’italianità ed estirpare la parlata locale. Fu imposta una mamma stipendiata al posto di quella naturale – puntualizza Cerno – Nelle otto frazioni di Lusevera c’erano otto asili e otto scuole elementari, un numero sproporzionato, se si pensa che a Tarcento, 8000 abitanti, c’era un solo asilo parrocchiale! “
Nel 1964 alle prime elezioni regionali, Cerno, che è maestro a Monteaperta, viene candidato nella lista socialista e ottiene un notevole numero di preferenze mettendo in minoranza nel suo paese la DC per la prima volta. Poi viene eletto in una lista civica per il comune a Lusevera (resterà 40 anni di fila nel consiglio comunale). Ma la vita è dura, viene continuamente boicottato, controllato e persino pedinato. Quando si offre per tenere gratuitamente un doposcuola ai bambini di Lusevera riesce a fare solo 2 lezioni: prefetto e sindaco intervengono e sopprimono le lezioni in dialetto locale. Nel 68 Cerno organizza per Natale una festa per il rientro degli emigranti al paese e chiama un complessino della Benecia, i “Beneški Fantje”.
Immediatamente sul Friuli Sera appare a caratteri cubitali un titolo”Il confine orientale psicologicamente sguarnito!” e il Comitato Italianità Val Torre scrive: “Ma in che patria siamo?” E ancora negli anni Settanta il professor Cerno, che ha sempre difeso la cultura friulana, viene accusato pubblicamente durante una riunione della Società Filologica Friulana di essere filoslavo solo perché aveva osato – come presidente del Circolo Ivan Trinko – portare il saluto degli Sloveni del Friuli.
Cerno: “Spesso ringrazio Dio, sono stato fortunato, non mi è mai successo niente anche se mi sorvegliavano e controllavano ogni mia azione. Volevano farmi allontanare ma non riuscirono mai a trovare una motivazione per trasferirmi. Io sono colui che è sfuggito all’estirpamento, ai loro occhi sono stato “imprendibile”. C’era tanta paura nel territorio, in tutta la fascia confinaria. Solo adesso che non c’è più motivo di temere molte persone mi fermano per strada e mi dicono: “Ti ho sempre sostenuto.” La guerra psicologica consisteva nell’instillare dubbi nei genitori, negli amici, nei compaesani, nel demolire la personalità di chi difendeva la lingua e le tradizioni locali. Ma io ho sempre camminato sulla strada che credevo giusta. La fede giova, e io avevo fede nella cultura. La cultura fa conoscere le anime, i sentimenti. Con la cultura diventiamo nuove persone, stiamo accanto a chi ha bisogno. Non bisogna avere macchie, e io volevo essere d’esempio, essere irreprensibile. Adesso che sono in pensione e ho tempo, leggo i libri degli avversari e mi accorgo di quanto male volevano farmi. Con l’obbiettivo di italianizzarci ci hanno tagliato la lingua, ma non sono intervenuti per costruire possibilità di vita sul territorio. Spesso penso a quanto male hanno fatto a questa gente, un male enorme, irreparabile. Noi avremmo potuto imparare con facilità le lingue dei vicini, essere una specie di ponte. Invece hanno voluto estirpare la popolazione, desertificare il territorio. L’unica cosa buona è che quel maledetto confine non c’è più e la gente di qua e di là del confine tornerà a incontrarsi come una volta, quando si andava a piedi, i rapporti erano stretti e le nozze frequenti!”
© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”