Miro e Vera, Angelo e Mirka. Due interviste parallele a due coppie, in Slovenia e in Italia, che rivelano la voglia di una comunità spezzata dal confine di tornare ad aggregarsi.
La chiesa fortificata di Monrupino/Tabor si staglia contro il cielo alta e bianca su un cocuzzolo roccioso inespugnabile. Siamo sul Carso, alle spalle di Trieste, a poche centinaia di metri dall’ex confine.
A questa chiesa, quando il confine non aveva ancora separato una stessa comunità, facevano riferimento tutte le borgate intorno, fin dove arrivava il suono della sua campana: Repen, Col e Fernetti, a sud ovest, Dol, Vrhovlje e Voglje a nord est(adesso in comune di Sezana).
Fino al 1947, quando fu tracciato il confine, era un unico paese, con cimitero, scuola e asilo a Col, e la popolazione era quasi esclusivamente slovena. Ora che il confine non esiste più, siamo andati a vedere come e se le due comunità – artificiosamente divise – stiano riappropriandosi del loro passato in comune.
La prima cosa che salta all’occhio percorrendo con andamento lento questi tranquilli paesi è la bellezza maestosa dei portoni carsici, marmo bianco di Repen con motivi religiosi e floreali, che ornano quasi tutte le case, vecchie e nuove, da entrambe le parti del confine. La seconda cosa, sono le vigne e la terra rossa su cui crescono.
“Adesso siamo in Europa”
Cominciamo in Slovenia. A Vrhovlje siamo attesi da Miro Stopar e da sua moglie Vera. Abitano nel centro del paese, viuzze strette, case addossate una all’altra. Il suo portone porta la data del 1865,è una casa contadina, il cortile interno è ombreggiato da una pergola, piante di gerani ovunque sui balconi.
Il simpatico Miro ha 64 anni, è nato a Lokev nel 1944, quando il territorio era occupato dai nazisti; ha fatto l’apicoltore e poi l’operaio in varie fabbriche; la moglie Vera invece è originaria di Vrhovlje; adesso sono pensionati e lavorano la terra. Si dedicano alla loro azienda agricola, la Cotova kmetija. E’ un territorio molto adatto alla coltivazione della vite, che produce il famoso vino Terano. “Il Consorzio produttori vino Terano raggruppa produttori sia italiani che sloveni: la terra è uguale e le viti sono uguali di qua e di là del confine! – inizia a raccontare Miro – Noi abbiamo vissuto per 60 anni nel sistema socialista jugoslavo; il vecchio sistema non era tutto buono, ma non era nemmeno tutto da buttare via. Soprattutto la vita era più sicura: c’era la pensione, la scuola, la sanità garantita, e lo standard era buono. Avevamo delle terre anche oltre confine e avevamo il lasciapassare; durante i primi 10 anni dopo la fine della guerra ci sono stati molti problemi, all’inizio mancava tutto, un po’ come in Italia del resto, che però ha avuto subito gli aiuti del piano Marshall. La Jugoslavia invece non ha avuto aiuti finanziari da nessuno! Infatti il periodo peggiore è stato nel 48, dopo la rottura di Tito con Stalin, quando dalla Russia non arrivava più niente.
Adesso siamo in Europa, e ne condividiamo le cose belle e le cose brutte. Adesso la nostra vita è come da voi, non è differente. Il nostro sistema è giovane; adesso abbiamo l’euro e la nostra valuta è più stabile; prima dovevamo mettere i nostri risparmi in valute estere per salvarli dalla svalutazione.In Slovenia ci sono solo 2 milioni di abitanti, ma il tasso di crescita è il primo in Europa, è del 6% ! Ci sono molte famiglie giovani, a Sezana la popolazione è aumentata del 5%.”
Vecchie ferite
La comunità di Vrhovlje possiede metà di una cava di marmo – ora chiusa – che si trova oltre confine, in territorio italiano. Fino a 60 anni fa tutti gli abitanti del paese lavoravano alla cava. Adesso la chiesa, il cimitero e la scuola sono a Sezana, a 7 km da qui. Che ruolo ha svolto per voi la vicinanza di Trieste? “Noi siamo stati per trecento anni sotto gli Asburgo e questo si riflette di sicuro ancora nella nostra mentalità. Per noi Trieste era la capitale, e poi non dobbiamo dimenticare che Trieste mangia con le cose che crescono sul Carso, e non quelle del Friuli.” E Vera aggiunge:”Mio nonno, che era nato nel 1865, andava anche due volte al giorno giù in città a vendere le ciliegie, portandole sulla testa con un cesto. Si vendeva anche la legna e la cenere per fare il bucato, andavano giù con un carro trainato da 4 buoi.”
Anche il padre di Vera, classe 1899, faceva il carrettiere e portava in città il marmo delle cave, invece la mamma di Vera (nata nel 1914)insieme alle sorelle vendeva il latte in città, scendendo la scalinata chiamata Scala Santa, e lo portava direttamente a domicilio dalle famiglie sue clienti abituali. Camminavano anche 10 km, tutte le donne lo facevano.
Vera va a prendere una caraffa di Terano e la mette sul tavolo. Lei e Miro parlano un discreto italiano ma si sente che vorrebbero conoscere le sfumature della nostra lingua per poter dire di più, esprimere i nodi complessi delle vicende passate. Più volte mi raccomandano di scrivere in modo “sensibile” e non aggressivo, Sono consapevoli dell’esistenza di vecchie ferite che bisogna ricucire. Del fascismo mi dicono solo che è stato un periodo “duro, duro”, e che solo in chiesa si poteva parlare un po’ di sloveno; i giovani venivano inquadrati in battaglioni speciali e spediti lontano, in Africa ad esempio. Miro puntualizza: “Ci vuole tempo, pazienza, la mentalità non si cambia in un anno, anche se oggi con la globalizzazione viviamo tutti in un unico sistema”. Quali sono i passi che stanno ricongiungendo le due comunità? “Un momento simbolico di grande importanza è la messa di Natale su a Tabor, che è vicinissimo – risponde Miro – Sono già otto anni che apriamo il confine e festeggiamo assieme a quelli di Repen, viviamo insieme di nuovo come i nostri vecchi. E da tre anni cantiamo nello stesso coro canzoni italiane e slovene. Poi, per passare dal sacro al profano, la cooperativa Kras organizza una degustazione con 50 diversi campioni di vino.”
Una margherita tra i capelli
Lasciamo il territorio sloveno incuriositi dal racconto del coro misto – le canzoni non conoscono confini – riproponendoci di fare un’intervista parallela in territorio italiano. Il caso ci fa fare un incontro davvero particolare, quello con Angelo Barani, classe 1945, emiliano di nascita ma ormai sloveno di adozione, perché vive nel comune di Repentabor/Monrupino da ben 41 anni. Oggi questo comune di 900 abitanti conta il 22% di italiani, e Angelo Barani è uno di questi.
Nato alle falde dell’Appennino, in una famiglia contadina, ha iniziato la sua carriera di guardia di finanza nel 1965 a Malborghetto, dove era addetto al servizio “ricognizione cippi di confine” al confine austriaco. Si accattiva subito le simpatie della gente del posto (per lo più sloveni e tedeschi) coltivando un pezzetto di terra abbandonato e regalando gli ortaggi in sovrappiù alle donne del posto.
Nel 1967 viene trasferito a Fernetti, sul confine jugoslavo, dove ancor oggi abita. Dice che, come prima con la Zollwache austriaca, anche i rapporti con gli jugoslavi sono sempre stati buoni. E proprio qui a Fernetti Angelo fa l’incontro della sua vita: quello con Mirka (Miroslava Komar), la sua futura moglie. “La prima volta che l’ho vista aveva una margherita tra i capelli – ricorda il signor Barani ancora emozionandosi – sono stato folgorato dai suoi occhi azzurri e da quei capelli color del grano”.
Ha la fortuna di venire accolto, lui italiano, senza pregiudizi da parte della famiglia di lei. Non sono anni facili e è ancora vivissimo il ricordo dell’oppressione subita dalla gente di lingua slovena sotto il fascismo. Così inizia la sua integrazione nella comunità di lingua slovena che stando ai suoi vivi racconti avviene in modo molto spontaneo ma saggio, per avere interiorizzato profondamente un insegnamento che il padre, prima della sua partenza da casa, nel 1964, gli aveva dato: “Ovunque vai, figlio mio, sappi che non è il tuo paese, devi rispettare usanze e tradizioni del posto e se non lo farai avrai vita dura”.
Tutti uguali
Angelo dà una mano in parrocchia, e inizia a cantare nel coro. La messa viene sempre detta in sloveno e si canta naturalmente in sloveno. Frequenta un corso di sloveno e poi, come dice Mirka, “si butta a parlare, senza paura”. Frequenta i paesani, soprattutto i membri del coro (gli italiani sono solo 4 su 17), e si sente accettato e benvoluto, tanto che qualcuno arriva a chiedergli scherzando: “Ma perché non sei nato qua?”. Gli viene offerto a più riprese di candidarsi nella Slovenska Skupnost, ma Angelo declina sempre perché lui non è sloveno; poi, nel 2005, accetta di entrare nella Lista civica e viene eletto con ben 30 preferenze. Il sindaco gli dà anche dato l’incarico di coordinare la protezione civile.
Tre anni fa, su iniziativa di Adam Simoneta di Vrhovlje, è stato creato il coro laico “Repentabor”, un coro veramente senza frontiere, composto da circa 35 persone, di cui due terzi provenienti dalla Slovenia e un terzo dall’Italia. La dirigente è Loredana Gustin di Col.
“Abbiamo un bel feeling, mi trovo veramente bene, il canto ci aggrega– dice Angelo – Nella cultura slovena c’è il canto fin dalla nascita, qualunque circostanza è motivo di canto. Il martedì facciamo le prove con il coro parrocchiale, che canta ogni domenica alle 10.30 durante la messa, mentre con il coro “Repentabor” ci troviamo tutti i giovedì nella sala comunale di Dol, e poi andiamo a cantare dove ci chiamano.”
Dal racconto di Angelo traspare il giusto orgoglio di aver creato già quarant’anni fa, su quello che per molti era il “famigerato” confine orientale, una famiglia in cui convivono e si rispettano due etnie diverse. I suoi due figli, ormai grandi, hanno frequentato le scuole italiane, perché era il padre, per i turni di lavoro, a poterli seguire di più, ma in casa parlano tutte e due le lingue. Anzi la figlia adesso fa l’interprete di italiano, sloveno e francese.
“La cosa che ci vuole è il rispetto reciproco, il confine nella mente è come cemento armato – conclude Barani – Siamo tutti uguali, tutti fratelli e la lingua non può e non deve creare alcuna barriera.”
© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”